Dal blues rurale al blues urbano
Tra gli anni ’20 e ’30, gli Stati Uniti vissero un periodo durissimo dal punto di vista economico, con una crisi che, come sempre, colpì più duramente le comunità più deboli. Anche in questi casi, questo tipo di difficoltà provocò migrazioni, dalle zone del sud le persone si trasferirono in massa nelle grandi e ricche città del nord, portando con sé la propria musica.
Fu allora che in città come Chicago, Memphis, Detroit e New York nacquero quartieri di soli neri che spesso erano ghetti malfamati dominati dalla criminalità, ma anche l’unica possibilità per tanti musicisti di colore di trovare locali dove suonare e guadagnare da vivere.
Tuttavia per suonare in questi locali (e farsi sentire) non erano più sufficienti la vecchia chitarra acustica, l’armonica o le rudimentali percussioni degli inizi; negli anni ’40 fecero così necessariamente la loro comparsa i microfoni per la voce, la batteria e le chitarre elettriche con i loro amplificatori. E attorno al cantante si riuniva spesso un vero e proprio gruppo musicale.
Anche le tematiche trattate nelle canzoni cominciano a parlare di nuovi problemi ‘cittadini’, dando vita così al blues urbano ormai lontano dal blues rurale delle origini per tematiche, anche se non per forma.
Su questa nuova scena si muovevano personaggi oggi entrati di diritto nella storia di questa musica come Albert King (1923 – 1992), Howlin’ Wolf (1910 – 1976), Sonny Boy Williamson II (1899 – 1965) e John Lee Hooker (1917 – 2001).
Negli anni ’50, il blues, nato con strumenti acustici nelle campagne, era ormai diventato una musica urbana, elettrica e molto più aggressiva. Il blues nato per cantare le angosce di una vita difficile, con il boom economico la gente che pagava l’ingresso nei locali, lo faceva per divertirsi e ballare: di storie tristi e tragedie della solitudine o del lavoro non voleva più sentir… cantare. Così, il blues si alleggerì nei propri contenuti dimenticando forse la sua anima originaria.
Quello che suonavano Willie Dixon (1915 – 1992), B. B.King (1925 – 2015), Chuck Berry (1926 – 2017) o Muddy Waters (1913 – 1983), era già diventato qualcos’altro, qualcosa che si chiamava rhythm’n’blues.
Disco: John Lee Hooker – Face to face (2003)
E’ questo un disco postumo, uscito due anni dopo la scomparsa di John Lee Hooker. In questi casi, spesso il sospetto dell’operazione puramente commerciale è forte, tuttavia, questo album, compilato dalla figlia del grande bluesman scavando tra l’enorme archivio del padre, può davvero essere considerato un po’ il testamento musicale del musicista. Qui Hooker, come ha fatto tantissime volte, incontra giovani colleghi per una serie di duetti registrati negli anni ’90: ci sono, tra gli altri, Van Morrison, Johnny Winter, George Thorogood ed Elvin Bishop. Tutti, maestro e allievi, impegnati a ripassare la grande lezione del blues.
Non è un caso che anche gruppi rock come Rolling Stones, Deep Purple o Led Zeppelin abbiano sempre dichiarato il loro debito nei confronti di questa musica e che questa musica sia stat realmente all’inizio del loro percorso artistico (un gruppo apparentemente lontanissimo da questo mondo musicale come i Pink Floyd deve lo stesso proprio nome a due bluesmen americani: Pink Anderson e Floyd Council).
Tutti musicisti inglesi quelli citati, perché il blues nell’Inghilterra degli anni ’60 ebbe una scena vivacissima, dominata principalmente da due grandi chitarristi: John Mayall (1933) ed Eric Clapton (1945).
Il blues negli anni ’60 conobbe una vera e propria esplosione e anche in questo caso esistono spiegazioni sociologiche: in quel periodo una grande rivoluzione culturale negli Stati Uniti portò un deciso avvicinamento dei bianchi (in articolare dei giovani) all’universo nero, con l’accettazione della sua cultura e della sua musica. Anche se va sottolineato che i blues non parlavano mai delle lotte politiche e sociali dei giovani degli anni ’60, non parlavano di emancipazione razziale, di guerra nel Vietnam o diritti civili, ma solo e sempre di vicende personali, di cuori spezzati, gioco d’azzardo, delinquenti e prostitute.
Altri musicisti bianchi interessati al blues da ricordare oltre ai sopracitati Maya e Clapton, sono: Charlie Musselwhite (1944), Paul Butterfield (1942 – 1987), Janis Joplin (1943 – 1970), Johnny Winter (1944), Michael Bloomfield (1943 – 1981) e Jimi Hendrix (1942 – 1970).
Il boom degli anni ’60 non ebbe però seguito nei decenni successivi. L’età, i problemi di alcol e droga, le difficoltà di vario genere finirono per assomigliare le fila delle «leggende» degli anni ’50 e ’60. Resistettero nomi come Buddy Guy (1936) o James Cotton (1935 – 2017). Sarebbe ingeneroso, comunque, non citare nomi la cui proposta, pur energicamente innervata dal rock, al blues si richiama in maniera dichiarata: Joe Bonamassa (1977), Ben Harper (1969), Steve Ray Vaughan (1954 – 1990) e Jeff Healey (1966 – 2008).
Disco: Eric Clapton – Me & Mr. Johnson (2004)
Eric Clapton ha iniziato la propria carriera come bluesman e, nonostante nei decenni se ne sia spesso discostato, l’amore per questa musica è sempre rimasto. Ne è la riprova questo album del 2004 nel quale il chitarrista reinterpreta alcuni brani di Robert Johnson in un onesto e sentito omaggio alla leggenda. Blues asciutto, senza fronzoli com’era agli inizi e come deve essere, certo più musicalmente ricco di come fosse in origine, ma in grado di conservare, delle origini, la vera anima.