Warren Zevon — The Wind (2003)

Questo è il testamento musicale di Warren, morto poco prima della pubblicazione del disco (24 gennaio 1947 – 7 settembre 2003). Colpito da un male incurabile, il musicista californiano ha voluto a tutti i costi questo album, e se pur stanco, affaticato dalla malattia, ha lavorato duramente con profonda dignità fino alla completa registrazione. Attorniato da un numero incredibile di amici e musicisti, ci ha consegnato uno dei dischi più belli ed ispirati della sua trentennale carriera.

A differenza del disco precedente “My Ride’s Here” (la malattia lo aveva già minato), un disco decisamente sottotono, questo lavoro si prende decisamente la rivalsa. Zevon ritrova la vitalità e canta come non gli succedeva da molto tempo. Tutti gli ospiti amici e musicisti come: Dwight Yoakam, Don Henley, Ry Cooder e Bruce Springsteen, solo per citarne alcuni, sono parte integrante delle canzoni senza però precluderne l’opera originale di Zevon.

Le sonorità portanti delle undici canzoni del disco hanno il sapore country e rock and roll. Sono ballate per la maggior parte malinconiche, alcune toccano punti di estrema tristezza, solo pochissime lasciano spazio a un po’ di gioia. Profondo e carico di intensità, The Wind è un grande disco, il progetto di un musicista maturo, conscio dei suoi mezzi, che ha lavorato al meglio per regalare al suo pubblico qualcosa che avrebbe dimenticato difficilmente. Il ricordo poetico/sonoro di un musicista, di un uomo, dall’enorme dignità.

Woody Guthrie — Dust Bowl Ballads (1940)

Strade polverose di un’America inquieta e povera. Lo spirito dell’hobo con tutta la sua filosofia popolare sempre alla ricerca della giustizia sociale.

Le canzoni di Woody Guthrie, classe 1912, sono il viaggio di un emarginato attraverso i drammi della Grande depressione e le rivolte del Midwest. Sono l’eco di un grido sofferto, una ribellione verso quello sviluppo sociale alienante e alienato, così inumano da accantonare e lasciare al proprio destino chi non vale perché non serve.

Musicalmente, a differenza di Pete Seeger — altro grandissimo cantore ‘impegnato’ nell’unire dialetticamente cultura e lotta sociale — il quale si muoveva in un contesto più rigoroso che evidenziava l’approccio storico-tradizionale del ricercatore folk di matrice bianca, Guthrie è stato il filo conduttore che ha ricondotto la ‘protest song’ nella strategia affidata, la spontaneità colloquiale del ‘talking blues’ e del ‘train time’.

Canzoni narrative di denuncia in cui la capacità di espressione diventa una vera poesia fatta di parole dure, vissute ognuna sulla propria pelle.

Estremamente prolifico (scriveva quasi ogni giorno una canzone), questo “Ballate delle tempeste di polvere” è sicuramente uno dei suoi migliori album, dove c’è la maggior ricchezza poetica.

Dotate della forza immensa della ragione e della verità, le quattordici ballate qui incluse sono un vero anelito di speranza verso una terra promessa mai raggiunta, una gloria mai vissuta e che beffardamente arriva a gratificarlo subito dopo la morte.

Bob Dylan, Ramblin’ Jack Elliott, Fabrizio De André, Judy Collins, Bruce Springsteen, Joan Baez, Roger McGuinn ma anche Nick Cave e lo stesso figlio Arlo, hanno tutti un debito verso questo leggendario eroe popolare che ha fatto della canzone uno strumento di denuncia e di sensibilizzazione.

Neil Young — On the beach (1974)

Se si escludono le estemporanee night-session di Tonight’s the nightOn the beach è il lavoro più drammatico, triste e doloroso di Young, ma anche quello meno negativo. 
Neil Young mette a nudo le sue esperienze facendone un punto di forza realizzando sei incubi agghiaccianti, tetri ed impenetrabili e due rifugi malinconici per il cuore. Storie di morte raccontate da chi è sopravvissuto, ricordi vicini e lontani che vengono rivisti con significati rivelatori. 
On the beach è una introspezione esistenziale con evidenti sottintesi psicoanalitici in un misto di irreale e quotidiano, di bisogno-abbandono, dove per la prima volta Neil Young vive la sua vita e le sue esperienze in prima persona. E’ l’impronta esasperata e vera del suo personale modo di intendere il blues: una musica cruda, chitarre sporche e lancinanti, ritmiche squadrate ed essenziali e su tutto la voce cruda di Neil che tesse frenetiche immagini surreali, suonate e interpretate esclusivamente per sé stesso.
Con queste confessioni autobiografiche On the beach cancella il passato ed esprime una nuova esigenza del musicista che artisticamente e umanamente lascia tutt’oggi stupefatti.

Elvis Costello — Imperial Bedroom (1982)

Il vegano Declan Patrick McManus in arte Elvis Costello è senza dubbio il personaggio chiave del pop britannico. Colui che ha restaurato la melodia a colpi di elettricità.
Imperial Bedroom è l’album che più di altri sintetizza la peculiarità della sua scrittura. La sua camera da letto mentale è quanto di meglio il pop costelliano possa offrire.
Le canzoni sono complesse, situate in atmosfere easy-jazz, tra pianto e ironia in un scenario avvolgente, non casuale, dove i brani sono un concentrato di dettagli sonori.
L’album è zeppo di punte di diamante che definisce nitidamente il suo sforzo creativo e la sua volontà di riconsegnare alla melodia una dignità spesso e volentieri calpestata da regole di mercato. I testi sono tutto meno che banali e consolatori.
Costello è uno dei pochi che si rendono conto che il pop non è un fenomeno limitato e introduce delle innovazioni di tipo strutturale e melodico. D’altronde il suo impeccabile gusto estetico ed emotivo non è altro che la regola dei corsi e ricorsi storici. E’ il rincorrersi di una musica tanto mutevole da formare, alla fine, una regola per lo sviluppo storico musicale del pop stesso.
Il disco, va ricordato, venne accolto dalla critica in maniera entusiastica mentre a livello commerciale si rivelò un flop ma poco contò per Elvis più attento alla forma d’arte che alle vendite.
Grande songwriter.

R.E.M. — Out Of Time (1991)

Rapidi Movimenti Oculari, l’indice fisiologico che rivela lo svolgersi del sogno all’interno del sonno. La musica rock per i R.E.M. è appunto uno stato ipnotico da sogno, dove i musicisti analizzano le varie visioni musicali, quelle che hanno mosso la loro sensibilità creativa (Doors, Byrds, Velvet), sovrapponendole poi con innovazioni e ulteriori appendici.

Abbandonata la neo-psichedelia del giro californiano, i R.E.M. realizzano l’opera più alta del nuovo sound metropolitano, dove la band vive queste composizioni in prima persona con una formula che si rivelerà imbattibile.

Questi quattro protagonisti da Athens, Georgia, fanno il “salto” grazie a un album che parla d’amore. Ne parla alla maniera loro, senza nulla concedere al luogo comune e senza spiegare: più che di un’analisi o un racconto, si tratta di un’evocazione di sentimenti e stati d’animo, dalla solitudine all’euforia, senza dimenticare l’ossessione, abilmente dissimulata in Losing My Religion, quello che diventerà il loro successo più grande. 

Out Of Time è per molti versi l’album più eccentrico della band meno eccentrica tra quelle di popolarità mondiale: è l’album meno chitarristico della loro intera discografia e quello in cui Michael Stipe canta meno (in due brani la voce principale è di Mike Pierson dei B-52’s). E’ l’album in cui il suono è più vario, forse più colorato (Shiny Happy People), ed è per certi versi un album di transizione, il perno centrale di una trilogia che con Green (1988) e il magnifico Automatic For the People (1992), si avvicina sempre più ai sapori del country (sempre alla R.E.M., naturalmente) e che rimarrà per sempre l’essenza di ciò che questa band rappresenta per la storia del rock’n’roll.

Out Of Time è una sorta d’immaginazione intensa e indisponente dove un country-rock acido e sognante scivola dentro canzoni dalle melodie stellari e arrangiamenti molto innovativi. E’ l’autocelebrazione di un nuovo mito, perché d’ora in avanti i Sognatori vivranno il paradosso e l’ebbrezza di essere una cult-band per la moltitudine. Anticonvenzionali sino in fondo.

John Lee Hooker — The Healer (1989)

“L’album blues più venduto in assoluto per uno dei più grandi bluesman ancor oggi in circolazione”, recitava la pubblicità del disco a fine anni novanta, poco prima della morte avvenuta nel 2001 a ottantaquattro anni.

Il termine “blues” è probabilmente più abusato che usato in questo disco che, sinceramente ho ascoltato fino alla nausea, per la sua immediatezza, per la sua ascoltabilità ma non certamente per la sua sonorità marcatamente blues.

Con questo disco, la chitarra più corteggiata del rock insieme a Muddy Waters e anche l’unico a uscire e imporsi dal ghetto di Detroit, ritorna con un album sensazionale che riassume e condensa tutte le indicazioni e i significati della sua arte e del suo modo di intendere il blues.

Premiato con molti Grammy Awards, il primo brano omonimo del disco è “il miglior singolo del 1989”, il canto caldo e profondo di Hooker accompagnato dalla chitarra di Carlos Santana e dal suo gruppo, creano un mix esplosivo, musica caraibica arricchita dallo spirito del Mississipi. I brani che seguono presentano ancora duetti d’eccezione con Robert Cray, Canned Heat, Los Lobos, Charlie Musselwhite. Meritano una citazione a parte la sensuale I’m in the mood, in cui Hooker duetta con Bonnie Raitt, cantante e chitarrista straordinaria, l’intrigante Sally Mae con George Thorogood alla slide guitar ed infine il pezzo di chiusura No Substitute, dove un solitario Hooker evoca atmosfere che ci riportano indietro nel tempo, alla schiavitù, alla malinconia e alla sofferenza del popolo afro-americano costretto a vivere ai margini della società, ma in cerca di un riscatto attraverso l’espressione della propria cultura e della propria spiritualità.

Dentro queste superbe ballate ci sono sentimenti ed emozioni di uno stile che il tempo non potrà mai sbiadire. Questo è un album che unisce in modo molto naturale tradizione e sonorità moderne; tutto questo grazie anche al lavoro di Roy Rodger, sapiente produttore del disco che riesce a creare l’ennesimo capolavoro di John Lee Hooker.

Roy Orbison — Mystery Girl (1989)

Roy Orbison, il baritono del rock and roll, l’anima più sensibile. Mystery Girl è l’album postumo di un rocker senza tempo che, dopo timidi tentativi, aveva ritrovato la passione e la voglia di riannodare il filo del suo passato.

Aiutato da un pugno di amici musicisti devoti e libero dai vincoli dello show-biz più equivoco, Orbison torna ad occuparsi di sentimenti e storie per cuori spezzati con una grazia musicale immune da qualsiasi fattore temporale. E’ un superbo e commovente autoritratto dalle caratteristiche rimaste ferme come per incanto a venti anni prima: rockabilly languido e romantico, melodie toccanti e piene di calore e la solita potente voce che non riesce a invecchiare. Dopo tragedie familiari e difficoltà superate a denti stretti, Roy portava sempre occhialoni scuri per nascondere la tristezza e guardare il mondo in grigio.

Mystery Girl è una via d’uscita certa dove ci sono finalmente i colori vividi di una seconda giovinezza. La sua musica possiede nuovamente quella magica eleganza dell’anima capace di stordire ad ogni ascolto. Solo i capricci di un cuore anzitempo stanco di lottare l’hanno potuta fermare.

Janis Joplin — Pearl (1971)

Atto finale della più grande cantante blues bianco mai esistita poco prima della sua morte, avvenuta il 4 ottobre del 1970, a causa di un miscuglio di alcol e droga. Pearl è il canto del cigno di una donna sola, infelice, che canta la sua tristezza con rabbiosa determinazione. A due passi dall’autodistruzione Janis Joplin realizza a Los Angels il sogno di emulare la sua antica maestra nera, Bessie Smith. Ogni brano è un gemito, un pianto disperato dove il sesso e l’anima si uniscono per diventare emozione sconvolgente, viva, esplosiva. Non ci sono più le certezze di essere l’unica star di un gruppo di dilettanti come i Big Brothers nè il dilemma e la paura del fallimento con la degenerazione sonora di Kozmic Blues, ma c’è un’artista che sente la fine un attimo prima e vuole dare il meglio di sè per esser ricordata.

Uscito postumo, Pearl è un epitaffio alla Spoon River. Si possono rintracciare canzone dopo canzone, nascita, splendore, miseria e morte di un talento inimitabile a cui bastava soltanto un sorso di bourbon per riprendere fiato, rialzarsi dal fango e scatenare il delirio.

Neville Brothers — Yellow Moon (1989)

Assieme a Brothers Keeper è senz’altro Yellow Moon il disco più importante della produzione musicale dei Neville Brothers.

Seguendo coerentemente una linea di sviluppo artistico che dall’iniziale influenza del cajun e della tradizione creola di New Orleans li ha portati man mano ad una miscela sempre più veriegata di stili, i Neville Brothers arrivano alla tappa più importante del loro lunghissimo cammino discografico iniziato negli anni sessanta come Meters.

Aaron, Ivan e compagnia decidono di estendere lo spettro di interessi e di indirizzi musicali con un prezioso lavoro di ripescaggi colti tra rock, gospel, musica etnica ed altri ricordi.

E’ un clima magico in uno swingante caleidoscopio di cori e controcanti fatti ad incastri che si muovono nella corrente più nobile della black music e del pop adulto. Yellow Moon è musica che scorre via corposa, ricca di contrasti tematici e sonori tra nero e bianco, dosata fino all’ultima nota dalla produzione attentissima di Daniel Lanois. Ombre fusion, forti richiami soul, accenni rock, ballate di grande respiro sono l’elegia più alta di una musica padrona di se stessa fino al punto di essere considerata estranea.

Massimo Bubola — Amore e Guerra (1996)

In Amore e Guerra, Massimo Bubola unisce passato e futuro, infatti, reinterpreta alcuni brani che ha scritto per altri con rinnovata energia ed intensità e dà a queste canzoni una veste completamente rinnovata.

Bubola mostra le sue qualità di interprete, la sua è una rilettura lucida e piena di forza. Le canzoni vengono da diciotto anni (dal 1978) di scrittura conto terzi, ed escono rivestite a nuovo.
Un disco come questo copre un buco nella discografia italiana.

La musica è sana, americana nello spirito, italiana nel corpo; non c’è, in queste canzoni, la solita italietta canora, la solita tiritera melodica, bensì un suono robusto e vibrante, che ci scuote e ci porta a gustare il disco, a risentirlo ed a risentirlo in continuità.

Chitarre elettriche, batteria dura, basso pulsante, ogni tanto una fisarmonica o un violino al servizio di qualche aria folkeggiante. Musica dolce e forte al tempo stesso: Bubola è un cavallo di razza che sa dosare sentimenti ed immagini.

Le canzoni…
“Fiume Sand Creek”: La canzone si libera fiera, ben lontana dai vincoli che le aveva imposto De Andrè: un mandolino di sapore ‘cooderiano’ stempera le sue note, la voce preme e la canzone, rabbiosa, ci avvolge in un crescendo continuo. Grande inizio.

“Un angelo in meno”: è l’unica canzone inedita, lenta basata su un bel gioco di chitarre, ha un testo forte, teso come una lama ed una melodia di ampio respiro.

“Johnny lo zingaro”: vecchia conoscenza con ‘The Gang’, è riletta con molta forza, chitarre quasi hard, batteria possente, ed una atmosfera piena di phatos, le danno una nuova vitalità.

“Andrea”: è una boccata d’aria fresca, il violino danza subito e la melodia cattura immediatamente. La rilettura è geniale, con un sapore country folk che dà alla composizione una nuova veste, invenzioni tex mex, brillanti e piene di allegria, fanno da contrasto col testo amaro, che racconta di coraggio e morte.

“Marabel”: è in chiave rock, chitarre aperte, batteria che preme, basso che pulsa. Massimo canta con rabbia.

“Spezzacuori”: ha un altro aspetto, l’atmosfera è quasi western, con la chitarra molto evocativa e la voce grave a raccontare. La canzone sembra uscita da un vecchio vinile di Johnny Cash.

“Sally”: è una delle cose più belle che Massimo ha regalato a Fabrizio de Andrè, ma questa versione supera di gran lunga l’originale. L’idea è quella di una chitarra liquida (c’è sempre Cooder nei dintorni) che segue, pari passo, la melodia. Grande brano.

“Don Raffaè”: è una delle colonne portanti di “Nuvole” di De Andrè, grande brano, grandissimo, eppure Massimo, ancora una volta, riesce a sorprenderci . Bluesato, leggermente jazzato, notturno e fumoso, Don Raffaè mantiene la sua lucida attualità sociale ma cambia radicalmente il suo vestito.

“Eurialo e Niso”: tra le più riuscite del disco, la struttura rimane, ma la musica è più forte con la chitarra a l’armonica che rafforzano la tematica ormai country.

“Camice rosse”: canzone di cui Massimo va molto fiero, che però la Mannoia non ha saputo rendere al meglio. Un tessuto armonico di sapore tex mex, ben evidenziato dall’uso continuo della fisarmonica. Una melodia intensa, condita con mille sapori, vibrante e piena di vitalità.

“Tre rose”, tenue ed interiore, e “Quello che non ho”, molto elettrica decisa. Concludono un album di grande spessore, molto poco italiano, in cui il senso della vera musica rock viene espresso appieno.

Bubola ha fatto il suo capolavoro.

Tom Waits — Rain Dogs (1985

“Preferisco un fallimento alle mie condizioni che un successo alle condizione altrui.”

Tom Waits è tra i miei songwriter preferiti e Rain Dogs è un capolavoro che non può mancare tra gli album preferiti della nostra collezione discografica.

“I cani che vagano per le strade alla ricerca della propria casa, dopo che la pioggia ha annullato gli odori” sembrano uomini che cercano il senso vero della vita, dopo che il destino ha cambiato di colpo tutto quello in cui credevano.

Rain Dogs è l’atto centrale della “trilogia” di Frank”, la logica conseguenza di “Swordfishtrombones” del 1983 che proseguirà poi con “Frank Wild Years” nel 1987. In questo disco si concentrano tutti gli elementi della mirabolante foga da ‘intrattenitore’ di Waits. Tom non è solo ‘song-writing’ mutuato al jazz notturno, ma è “suono & significato”, un ‘estratto’ direttamente dalle fogne di New York. La sua musica è un mix impressionante di blues, free-jazz, tanghi, polke, atmosfere orientaleggianti e ritmi tribali che non si escludono vicendevolmente, ma si completano magistralmente.

“La mia vita è come quella di un vigile urbano: momenti di noia rotti da momenti di puro terrore.”

Il suono è reso attraverso un complicato armamentario di percussioni fatte in casa, parole di lacerante poesia, senso dello spazio ridotto alla visuale di un treno diretto al centro della città. E’ una dissacrante panoramica sulle culture deboli.

Con questo intruglio passionale e drammatico fatto di brevi capitoli, Waits scuote la retorica effimera del rock e fa dell’andare fuori tempo e della sua voce roca al limite della stonatura una nuova norma da seguire. Waits smantella tutte le sue memorie stilistiche offrendoci una visione etilica e grottesca di un’umanità rassegnata e senza più sogni da inseguire.

Rain Dogs è la metafora di un mondo di sconfitti che masticano lentamente il sapore di questa dimensione, senza illusioni. La più grande Opera buffa da parte del Bukovski del nuovo blues, un americano che odia l’’America’ chiamato Tom Waits.

Un genio al suo massimo.

Police — Reggatta de Blanc (1979)

Ci sono dei dischi che più di altri rimangono nella mente perché legati a forti emozioni. Questo è uno di quelli, un disco legato soprattutto a ricordi… pensate; vent’anni e un nuovo amore… ho detto tutto, no?

Restiamo negli anniversari con questo disco quarantenne, portati bene, Reggatta de Blanc, probabilmente il loro capolavoro uscito nel ’79 dopo “Outlandos d’amour” del ’77.

All’inizio c’è il punk, anche se per sottrazione: ”Il punk mi interessa come fatto di costume, la musica invece mi fa veramente schifo”, osserva Sting mentre sfrutta lo stesso circuito di club utilizzato da Clash, Stranglers e Sex Pistol. E’ il 1977, e il fenomeno Police esplode in Inghilterra. Sting avverte che è giunto il momento per esprimere cose originali, per superare il guado in cui s’è cacciato il movimento punk, cui per altro non appartiene. Sente di avere un mucchio di cose nuove da dire. Ci crede, e con lui Stewart Copeland. Ha anche dato un calcio alla sua carriera di insegnante per dedicarsi alla musica. Scrive di getto una ventina di pezzi in vista prima dell’esordio e di questo “Raggae dei Bianchi” poi.

Sono stati definiti gli inventori del Reggae rock; il chitarrista Andy Summers, con il suo ricamo sonoro, fatto di fraseggi e accordi di ampio respiro, il bassista Gordon Sumner, in arte Sting sostenitore implacabile nonché voce principale e il batterista Stewart Copeland, con le sue alterne e geniali rullate trascinatore brano per brano.

E così, Message in a bottle, Reggatta de blanc, Deathwish, It’s al right for you, Bring on the night e Walking on the moon, solo per citare le principali e più riuscite canzoni del disco, firmano un’opera che verrà venduta e ascoltata in tutta europa e nel mondo. La caratteristica principale dell’album è la sincronicità, i brani pur andando a tempo prendono vie di fuga diverse e sempre nuove per poi fare ritorno alla base principale, alla melodia iniziale. Si è parlato di reggae perché è elemento fondamentale di tutto il disco, in tutti i brani riecheggia il sound caraibico, che diverrà il loro marchio di fabbrica in barba a tutte le contaminazioni che all’epoca venivano criticate.

I Police dovettero giustificarsi in una conferenza stampa dall’accusa di aver rubato le idee agli artisti reggae. “Sì, abbiamo preso energia dal reggae, ma gliene abbiamo anche data”, dissero.

Pere Ubu — Modern Dance (1978)

La “danza moderna” opera prima dei Pere Ubu, rimane a distanza di oltre quarant’anni un disco straordinario. Ecco sì, straordinario è l’aggettivo che più gli si addice. Straordinario il nome Pere Ubu (Ubu Roi, pièce teatrale del commediografo francese di fine ‘800 Alfred Jarry), che non diceva niente a nessuno ma aveva un bel ’suono’. Straordinaria la voce di David Thomas, un gigante con i capelli a cespuglio che cantava con un vocione da orco. Straordinari i musicisti Revenstine, un cercarumori quando l’elettronica era tutt’altro che facile, il chitarrista Herman, un trasformatore elettrico da 125 in 380volts, la sezione ritmica di Krauss alla batteria e Maimone al basso che scandiscono una musica complessa e alienata. Straordinario il suono, un turbinio di note, con scenari post-industriali, schizofrenici e avanguardistici.

Gli Ubu si auto producono quattro singoli, uno più feroce dell’altro, prima di giungere a questo favoloso esordio. Il disco è tirato in poche copie, non entra mai in classifica, ma abbaglia subito i cercatori di rock diverso. Thomas e i suoi portano il rock verso nuove frontiere, senza dimenticare l’essenzialità delle sue origini. Producono una musica con la devastante energia del punk, il ruvido calore del blues e presagi di quelli che un giorno sarebbero stati chiamati ‘paesaggi immaginari’ dell’electro-music. La voce squassata del leader e mente del gruppo David Thomas, l’anti — Sinatra per il suo ‘mal di canto’ si diverte a scrivere alla rovescia la storia della canzone tipo, e fa della sua sgraziata e disarmonica vocalità il marchio di fabbrica del gruppo.

Difficile, assurdo e insignificante catalogare il loro suono, avanguardia, jazz, rock, folk, tutto questo e il contrario, un meraviglioso variopinto minestrone musicale condito in maniera razionale da una melodia strabiliante, unica e invidiabile. Una visione ‘forse’ troppo forte e troppo ‘avanti’ per l’epoca. Un disco che resta ancora straordinario per la sua forza, ancora attuale e influente.

David Sylvian — Brilliant Trees (1984)

Ricordo bene, era una sera d’estate del 1984, con un gruppo di amici appassionati ci si chiedeva quale fosse il più bel disco del momento, le nomination furono due: “The Medicine show” dei Dream Syndicate e “Brilliant Trees” di David Sylvian. Album diversi fra loro ma uniti dalla una ‘nuova forza’ che li vedeva una spanna sopra alla moda musicale del momento. Ricordiamoci che siamo negli anni ottanta dove imperavano gli Spandau e Duran e non me né si voglia, ci sentivamo dei carbonari nel sostenere questa musica che per noi era ‘vera’.

David Sylvian che all’epoca ha ventisei anni abbandona come cantante il gruppo che lo ha reso famoso, i Japan. Dotato di grandi inclinazioni sonoro-vocali, intraprende una carriera solista che lo porterà con questo disco ai vertici delle classifiche.

Volendo può iniziare una vita da star commerciale, diverse sono, infatti, le proposte che gli vengono offerte ma, introverso e schivo allo show business rinuncia per una scelta dettata solo dalla sua passione che è l’espressione musicale. E’ un ottimo disco Brilliant Trees di rara intensità, anche se non il migliore, ritengo, infatti “Secrets of the Beehive” (1987) il suo capolavoro. L’inglese David Sylvian usa la sua magia vocale per dei respiri che ci portano in un mondo dove la poesia regna arcana ed esoterica. Il termine rock ormai non abita più nelle sue ‘corde’, il suo suono è un equilibrio fra rarefazioni e melodie orientali ma con un marcato lirismo europeo. Anche i piccoli cedimenti che effettivamente esistono, poco contano nella complessità dell’album.

Non è avanguardia, ma non siamo neanche tanto lontani se per avanguardia intendiamo una forma di sperimentalismo fra ritmo e ambient, di cui poi in futuro diverrà maestro. Questo nitido esordio solista ci insegna e ci dimostra la tesi assai ardua per l’occidente; che il sentimento non passa per forza di cose attraverso il pathos e che la precisione può essere arte.

Tutto questo è stato possibile grazie anche alla collaborazione di maestri del suono come: Sakamoto, Czukay, Isham e Thompson. Manca solo Brian Eno, ma il suo spirito aleggia su tutta l’opera.

Pino Daniele — Nero a metà (1980)

Dopo la pubblicazione di “Terra mia” del 1977 e la conferma con l’album “Omonimo” del 1979, Pino Daniele pubblica “Nero a metà” il disco che lo consacrerà definitivamente al grande pubblico.

Daniele ha venticinque anni ma ha già una buona esperienza come strumentista suona, infatti, dall’età di dodici anni e ha già militato in diversi gruppi partenopei compresi i Napoli Centrale.

Pino Daniele come Napoli, possiede in questo disco una doppia anima, romantica la prima, ritmica la seconda, nervose e soleggiate entrambe.

Nero a metà è un buon disco, senza alti e bassi. Daniele riesce a stringere in dodici canzoni la ‘napolitanità’ sonora fatta di mare, caffè, chitarra e soul. Come ogni grande musica, le canzoni di Nero a metà sono quasi più di chi le ascolta che di chi le ha scritte. Ma chi le ha scritte ha un grande orecchio, e ha avuto il merito di convogliare in arte le tante ispirazioni del mondo sonoro napoletano.

Il disco inizia con l’armonica di “I say i’ sto ccà” che ci fa subito ambientare alle strade e viuzze di Napoli prima di passare alla musicalità di “Musica musica” dove il sound ci mette a nostro agio. Ci si rilassa con l’intimità di “Quanno chiove” canzone d’amore di una profondità incredibile, la napoletanissima “Puozze passà nu guaio” invece ci fa tornare nella realtà napoletana. L’intermezzo cantato in italiano di “Voglio di più” ci ricorda che Napoli non è un’isola felice e la sensuale “Appocundria” ce ne da la conferma. Il sound-napol-blues di “A me me piace ‘o blues” esprime al meglio quel suono che solo i napoletani riescono ad infondere, come l’altro brano sentimentale tra i più belli del disco che porta il titolo di “E so’ cuntento ‘e sta”. Non poteva mancare la teatralità Napoletana di “Num me scuccià” come altrettanto la jazzata “Alleria”. Concludono questo quadro sonoro la esplicita “A testa in giù” dove il testo ha il sopravvento sul suono, prima di finire con la bella vocalità di “Sotto ‘o sole”.

Sono tutte belle canzoni queste, rese grandi anche per l’aiuto di ottimi strumentisti: Vitolo, De Rienzo, Marangolo, Iermano, Senese, Potter e De Filippi. Tra i migliori musicisti partenopei e italiani.

Nero a metà resta tra le migliori produzioni musicali incise in Italia. Daniele e i suoi compagni riescono a scrivere un capitolo musicale dove il ’napoletano’ non solo viene cantato ma soprattutto viene trasmesso attraverso le note degli strumenti, attraverso il sudore dei musicisti.

Mahavishnu Orchestra — The Inner Mounting Flame (1972)

In un periodo adolescenziale della mia vita fui folgorato sulla via del jazz rock (e non solo), termine non certamente ortodosso per la critica jazzistica.
Fra i tanti musicisti e gruppi in auge in quegli anni, la Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin nutriva la mia più sentita ammirazione.
Se Miles Davis inventò il jazz rock sulle onde di “Bitches Brew”, furono i suoi discepoli a dargli ordine e regola, a cominciare da John McLaughlin, che con Hammer e Cobham fondò nel 1971 la Mahavishnu Orchestra. The Inner Mounting Flame è uno dei capolavori insieme a Birds of Fire (1973) di questo genere sonoro: il jazz rock. Questo primo disco è completamente composto dal giovane trentenne chitarrista, dotato di una tecnica straordinaria affinata nei lunghi anni di apprendistato nella scena jazz blues britannica.

McLaughlin è ispirato dalla filosofia induista di Sri Chinmoy e in “The Inner Mounting Flame” né dà evidente prova, infatti, per lui la musica è solo un mezzo e non un fine. Con le sue corde non vuole suscitare effimere meraviglie ma vuole premere nel profondo dello spirito. L’album è un insieme di mistiche visioni e di furibondi eccessi di energia. I musicisti dialogano fra loro, in maniera naturale senza nessuna forzatura, seguendo una “corrente” jazzistica, che si contrappone a quella più marcata del suono rock, in cui, normalmente, la presenza di uno strumento solista tende a prevaricare sugli altri. McLaughlin non nega la possibilità anzi, spesso sembra voler letteralmente richiedere ad ogni musicista del gruppo di potersi esprimere in maniera autonoma, senza nessuna censura e con la massima libertà.

A questo, però, si contrappone al contempo una scelta di suoni e arrangiamenti spesso lontani dal jazz, che rende il gruppo artefice di quello che poi, con il passare degli anni, troverà identità propria in altri generi musicali, più ancora che nel jazz-rock o nella fusion.

Altro disco interessante è: Love Devotion Surrender (1973) insieme a Carlos Santana, un dei miei dischi preferiti, un disco che è “ode alla chitarra elettrica”, e mai come in questo caso rappresenta uno dei migliori mai suonati nella straordinaria storia del rock.