The Good Son, l’album che contiene The Weeping Song è sicuramente meno devastante, musicalmente, dei suoi capitoli precedenti. Solare no, diciamo che Cave avanza timido verso l’umanità. Se prima non si curava e sbatteva le porte provocando un fragore assordante, con The Good Song apre le porte con moderazione, equilibrio e sobrietà. Dalla tasca fuoriescono i soliti pennarelli neri per imbrattare pareti di stanze illuminate. Il ritornello si può cantare in coro, prima di capire che dietro quel canto dolente si nasconde il punto di non ritorno.
Anche quest’anno, come da consuetudine, condivido la mia classifica personale dei dischi ascoltati. Questo 2022 è stato caratterizzato soprattutto da una grande mole di dischi pubblicati, sicuramente, per quanto mi riguarda, un buon 25/30% in più rispetto agli anni scorsi. Probabilmente il covid ha fatto la sua parte.
La musica africana di cui sono particolarmente attratto, è presente con ben otto dischi: Noori & his Dorpa Band, Baba Sissoko & J.P. Rykiel, M.S. Diabate, L. Kouyaté, Vieux Farka Touré et Khruangbin (con due dischi), Mdou Moctar, Mamadou Diabate e Nduduzo Makhathini.
Tre nuove scoperte: Jake Xerxes Fussell, Grace Cummings e Dean Owens.
Molti conosciuti: Tedeschi Trucks Band, Taj Mahal & Ry Cooder, Van Morrison, Big Thief e Anaïs Mitchell (ma anche tanti altri).
Un solo italiano: Massimo Zamboni con un bel disco, profondo e di forte impatto emotivo.
Un nuovo gruppo ma con musicisti ultra conosciuti come i The Smile.
In questa classifica ne sono presenti un centinaio, tutti dischi che ho ascoltato molte volte e con attenzione. Le mie recensioni sono poche, una cinquina, tutte le altre sono di recensori presenti su riviste, blog e siti di informazione musicale.
Su ‘artesuono‘ la classifica completa con le relative recensioni.
Qui sotto un brano di Grace Cummings, attrice di teatro e cantautrice Australiana di Melbourne.
Imagine è un brano musicale di John Lennon pubblicato nel 1971.
Imagine viene spesso citata come uno dei brani musicali più belli della storia della musica rock; la rivista Rolling Stone, per esempio, l’ha posizionata al terzo posto nella classifica dei migliori brani musicali di tutti i tempi.
Lennon compose Imagine all’inizio del 1971, su un pianoforte Steinway nella sua camera da letto a Tittenhurst Park, la sua residenza in stile Tudor a Ascot, Berkshire, Inghilterra, dove lui e Yoko Ono nell’estate del 1969 prendono la residenza. Proprio Yoko gli fornisce l’ispirazione, pubblicando qualche anno prima Grapefruit: A Book of Instructions and Drawings, completamente basato sull’immaginazione.
Quando scrive Imagine, Lennon non si rende minimamente conto dell’enorme potenziale della canzone. Realizza un disco demo in cui la presenta come il rovescio della medaglia di Gimme Some Truth, la sua invettiva politica.
Del senso e della potenza di Imagine ha parlato anche suo figlio Julian: «Non vuole imporre a tutti una sua idea. Non si tratta di religione o di politica, ma più semplicemente di umanità e di vita. Ognuno di noi si augura quello che lui sta cantando e credo che questo sia il motivo per cui ancora oggi la canzone è così importante».
Pensiero
Concludo questa lista di dieci canzoni, a cui sono particolarmente legato, perché “legate” da un filo comune: il ricordo.
Infatti ricordo benissimo la prima volta che l’ascoltai alla radio, credo fosse anche la prima volta che fu trasmessa. Era una mattina dell’inverno 1971/72, stavo facendo i compiti perché andavo a scuola di pomeriggio (all’epoca erano normali i doppi turni a causa del sovrannumero) facevo la seconda media.
Il pianoforte fu un colpo al cuore, poche note, toccate piano, pianissimo. Ogni toccata di tasto creava un’emozione indescrivibile, la sua voce lieve, profonda, intersecata al suono, accapponava la pelle. Grande canzone quindi.
Quando un brano, e non sono poi tantissimi, dopo decenni e decenni (Image ha oltre cinquant’anni), dopo una miriade di ascolti riesce ancora ad emozionare non può essere altro che un capolavoro. Ogni altra parola su una canzone come questa risulterebbe sicuramente superflua. Questo è un brano che va semplicemente ascoltato e niente più.
Thunder Road è uscita nel 1975 come prima traccia dell’album Born to Run.
Uno degli aneddoti racconta della prima volta che Bruce Springsteen suonò una versione embrionale di “Thunder Road“, nel febbraio del 1975, con la E Street Band. La folla applaudì il riff di apertura come se avesse conosciuto il brano da sempre. La melodia veniva suonata dal sax di Clarence Clemons, ma non si faceva ancora riferimento a “thunder road“. Questa prima versione si intitolava “Wings for Wheels“, nome che in realtà, come riferisce il batterista Max Weinberg, si riferiva all’intero album.
Di questo brano esistono diverse revisioni, compreso il nome di donna che è cambiato più volte (da Angelina a Christina), prima che si decidesse per Mary. Anche la parte armonica dell’introduzione ha subito numerose modifiche: dalla versione suonata al sax ed una versione alternativa con chitarra acustica realizzata dallo stesso Springsteen.
Nel 2021, dopo 46 anni, Bruce Springsteen cambia una parola nel brano. La modifica è nel primo verso della canzone, ‘The screen door slams, Mary’s dress waves’, .’Waves’ diventa ‘Sways’.
E’ stato risolto così l’ultimo rompicapo del web dopo che la giornalista Maggie Haberman del New York Times aveva twittato una foto di una foto di un palcoscenico vuoto di ‘Springsteen on Broadway’ (una serie di concerti tenuti dal Boss tra il 2017 e il 2018 in due teatri di New York). Nella didascalia si leggeva ‘A screen door slams, Mary’s dress sways’. Immediatamente la rete si è rivoltata contro affermando che la parola giusta è ‘waves’ e non ‘sways’.
In entrambi i casi significa ondeggiare, ma wave è riferito alle onde, in questo caso si tratta di un vestito. La versione con ‘waves’ compare anche sul sito ufficiale di Springsteen, ma lo stesso usa ‘sways’ nella sua autobiografia ‘Born to Run’.
Pensiero
Nel 1975 avevo sedici anni e Springsteen dieci di più. Quando ascoltai Born to Run per la prima volta, fu un fulmine a ciel sereno. Rimasi incantato dall’energia di questo giovane musicista, dal sax di Clarence Clemons (morto nel 2011) e dal sound che riusciva ad esprimere con estrema semplicità. Subito la critica gridò alla nuova rivelazione rock e non ebbe torto.
Da quel momento non lo persi più di vista, pardon udito, e di dischi meravigliosi è riuscito a donarmene in grande quantità. Le canzoni di una bellezza disarmante sono tantissime e trovarne una è un’impresa impensabile e proprio per questo ho scelto la prima del suo primo (non di pubblicazione) disco che mi fece conoscerlo.
A differenza di altri brani di altri musicisti descritti qui sul blog, a cui sono legato per particolari motivi, in questo caso sono più legato all’intero disco, un disco legato ad una età in piena crescita musicale (e non solo) dove (anche) il boss ha avuto un ruolo determinante nella mia formazione “sonora”.
There Is a Light That Never Goes Out è un brano della band inglese The Smiths. Originariamente contenuto nel terzo album, The Queen Is Dead, nel 1987 il brano venne scelto dalla Virgin per essere pubblicato come singolo per il mercato francese, e solo nel 1992, cinque anni dopo la separazione della band, venne ripubblicato dalla WEA in tutto il resto del mondo, riuscendo a raggiungere la posizione numero 23 della Official Singles Chart.
A causa di una disputa tra la band e l’etichetta Rough Trade Records, dopo il completamento dell’album The Queen Is Dead, passarono ben nove mesi dall’uscita di The Boy with the Thorn in His Side prima che il gruppo potesse di nuovo pubblicare un nuovo singolo. Gli Smiths iniziarono a lavorare alla realizzazione di There Is a Light That Never Goes Out a metà del 1985, durante una session presso i RAK Studios di Londra e, agli inizi di settembre, registrarono un demo di prova della canzone con l’aggiunta di un arrangiamento di archi creati tramite un emulatore synth da Marr (e accreditati sull’album come Hated Salford Ensemble), pare per mancanza di budget o forse per una certa riluttanza da parte della band stessa a consentire a musicisti esterni di partecipare al processo di registrazione. La session venne poi completata, nel mese di novembre dello stesso anno, presso gli Studios Jacobs di Farnham, dove Morrissey ricantò la sua parte vocale e Marr aggiunse una linea melodica di flauto. (Wikipedia)
Pensiero
Musicalmente, There Is a Light, è senza dubbio una delle canzoni più toccanti e romantiche degli Smiths, in cui ogni strumento e ogni suono è messo al punto giusto per ottenere il massimo impatto emotivo. La melodia contiene una sequenza armonica presa in prestito dalla cover dei Rolling Stones di un brano di Marvin Gaye (Hitch Hike), che Johnny Marr disse di aver incluso quasi per gioco, per vedere cioè se la stampa musicale inglese sarebbe stata in grado di ricondurre tale citazione alla band che, originariamente (sempre secondo il chitarrista), aveva rubato quella linea melodica, ovvero i Velvet Underground in There She Goes Again.
“Sapevo di essere più intelligente di loro.” commentò poi Marr “I was listening to what The Velvet Underground were listening to”.
Il testo della canzone descrive la storia di due amanti e la loro stretta relazione, fra amore non dichiarato e morte, fino alle estreme conseguenze di un incidente stradale accanto alla persona amata (And if a double-decker bus / Crashes into us / To die by your side / Is such a heavenly way to die / And if a ten ton truck / Kills the both of us / To die by your side / Well, the pleasure, the privilege is mine.).
La paura del buio nel sottopassaggio è forse la paura del rifiuto della persona amata o di una nuova relazione (And in the darkened underpass / I thought Oh God, my chance has come at last! / But then a strange fear gripped me / And I just couldn’t ask.). La luce che non si spegnerà mai (the light that never goes out) simboleggia la luce di questo amore inconfessato, nell’anima del passeggero di quest’auto.
1982-1987: sono bastati cinque anni alle due anime degli Smiths, Morrissey e Johnny Marr, per segnare per sempre la storia della musica rock, con quattro LP, tre raccolte e una manciata di singoli veramente indimenticabili.
L’unione tra i testi ironici, intelligenti e appassionati di Morrissey e gli innovativi arrangiamenti di Marr (per non parlare della sempre sottovalutata sezione ritmica di Andy Rourke e Mike Joyce) ha dato origine a un culto che ancora oggi può contare su milioni di appassionati in tutto il mondo, Italia compresa.
E’ difficile trovare la canzone preferita degli Smiths, questa comunque è una delle più belle, che non mi stanco mai di ascoltare.
Train in Vain è il terzo singolo estratto da London Calling, pubblicato nel 1979. Questo fu il primo singolo dei Clash ad entrare in una Top 30 statunitense e nel 2004 il brano è apparso alla posizione n° 292 nella lista delle 500 migliori canzoni dalla rivista Rolling Stones.
Non solo le parole Train in vain non sono mai citate nel testo, ma nel brano non si parla mai nemmeno di un treno. Il titolo doveva essere Stand By Me, poi utilizzato come sottotitolo, ma i Clash temevano che il loro pezzo si confondesse con l’omonima canzone di Ben E. King. Alla fine optarono per Train in Vain perché il ritmo del brano ricordava all’autore MickJones l’andamento del treno e poi per assonanza con Love in Vain di Robert Johnson, uno dei capolavori del blues che Strummer amava particolarmente.
E’ probabile che Train in Vain sia una risposta a Typical Girls, una canzone delle Slits, il gruppo di Viv Albertine da cui Jonessi era appena separato e che trattava lo stesso argomento: donne che stanno a fianco dei loro uomini. Ecco perché la prima strofa del brano recita così: “Dici di stare accanto al tuo uomo/ ma dimmi perché non capisco/ dicevi di amarmi e questo si sa/ però mi hai lasciato perché ti sentivi intrappolata.”
Nel 1995 una cover di Annie Lennox viene prodotta e inserita nel suo secondo album “Medusa”.
È apparsa anche nell’episodio “Transitions” di The Wire e nel finale di stagione della terza stagione di Fresh Meat , nonché nel film You, Me, and Dupree . È stato utilizzata anche nell’ottava stagione di Dancing with the Stars, interpretato da Ty Murray e Chelsie Hightower per un Cha Cha.
“Train in Vain” è apparso nel video skate Almost: Round Three durante la parte di Rodney Mullen. È anche presente nella colonna sonora del videogioco NCAA Football 2006, oltre ad essere disponibile come traccia scaricabile nel gioco Rock Band .
La canzone è stata inclusa come parte della colonna sonora di Grand Theft Auto: Philippines e Grand Theft Auto: Manila City Stories nella stazione DWJM Rock Radio.
Pensiero
La storia di Train in vain è sintomatica di come un gruppo come i Clash se ne sbatteva altamente delle dinamiche discografiche, privilegiava l’urgenza e l’immediatezza e inseriva un brano nel nuovo album London Calling (già un doppio) all’ultimo momento, quando ormai le copertine erano in stampa e lo faceva uscire con l’aggiunta di questa appendice sconosciuta e non accreditata da nessuna parte (per quanto il titolo fosse stato aggiunto con un ago nella parte vuota di vinile alla fine della facciata). Anche per questo la mia scelta è caduta su questo brano.
Jeffrey Scott Buckley (Anaheim, 17 novembre 1966 – Memphis, 29 maggio 1997) è stato un cantautore e chitarrista statunitense.
Hallelujah è un brano di Leonard Cohen datato 1984, resuscitato negli anni ’90, riproposto e reinventato da altri artisti così tante volte fino a diventare un inno laico contemporaneo.
The Atlantic riassume così la storia di “Hallelujah”: “Una delle ballate più belle di sempre a firma di Leonard Cohen; indimenticabile poeta, cantautore, scrittore canadese, dalla voce calda “simile a un rasoio” che ha influenzato generazioni di cantautori“.
L’attenzione sulla canzone viene attirata da una prima cover, quella incisa da John Cale (fondatore dei Velvet Underground con Lou Reed) in un album tributo a Cohen del 1991, lasciata all’essenzialità di pianoforte e voce.
Jeff Buckley la inserisce nel suo album di esordio, Grace, nel 1994.
Il testo del brano contiene numerosi riferimenti biblici ed è stato oggetto di interpretazioni diverse, anche a seguito dei continui cambiamenti nei versi che lo costituiscono e dei molteplici stili adottati nella sua esecuzione dagli artisti che lo hanno cantato nel corso degli anni.
Pensiero
Jeff è figlio di Tim Buckley, songwriter morto giovanissimo di overdose senza arrivare al successo. Dal padre eredita la capacità di spaziare fra i generi e l’istinto per una vocalità libera e a volte anche sperimentale, ma passa i primi anni della sua carriera lavorando per conto-terzi come chitarrista session-man.
Hallelujah (e tutto il disco), sono di una profondità indescrivibile. Lo strumento “voce” è quello che preferisco in assoluto, tutti i miei cantautori preferiti hanno una voce di prim’ordine e Buckley non sfugge a questa particolarità. Fui colpito infatti al primo ascolto dalla sua voce, lirica, suggestiva, ammaliante, unica.
Se Cohen è solenne o enfatico (vedi anche le versioni live), ma comunque relativamente distaccato, Buckley è straziante nella sua disarmante semplicità, messo a nudo davanti al microfono nell’esporre la sofferenza e il conflitto suggeriti da un testo che – come pochi altri – si presta a interpretazioni diversificate.
Sweet Thing è un brano tratto dal suo secondo album capolavoro Astral Weeks del 1968. Scritto da Morrison in età compresa tra i 22 e 23 anni, dopo aver incontrato la sua futura moglie Janet durante un tour negli Stati Uniti nel 1966 e durante l’anno della separazione dopo essere tornato a Belfast.
In soli 4:22 secondi Morrison riesce a descrivere perfettamente qualcosa che è quasi impossibile da descrivere, la sensazione inebriante che provi quando un nuovo amore entra nella tua vita, solleva il morale e ti fa sentire come se nulla al mondo fosse impossibile.
Questa è l’unica canzone di Astral Weeks che guarda avanti nel tempo piuttosto che soffermarsi e pensare al passato.
Il ritornello: “E sarò soddisfatto, di non leggere tra le righe, e camminerò e parlerò, nei giardini tutti bagnati di pioggia, e non invecchierò mai più così tanto”
Van Morrison descrive la canzone: “‘Sweet Thing’ è un’altra canzone romantica. Contempla giardini e cose del genere… bagnata dalla pioggia. È una ballata d’amore romantica non su qualcuno in particolare, ma su un sentimento.”
Pensiero
Ho conosciuto l’artista Van “The Man” Morrison, in età adolescenziale e a parte qualche brano, non ho mai approfondito i suoi dischi, il suo mondo musicale. Di conseguenza, a differenza delle canzoni pubblicate precedentemente, Sweet Thing, come il disco, come tutto il materiale sonoro di Van Morrison, appartiene all’età matura. Fu nel 1986 con “No guru, no method, no teacher” (a tutt’oggi il mio disco preferito di sempre) che ebbi l’illuminazione e da quel momento niente fu come prima. Cominciai a scoprire i suoi dischi o meglio “capolavori” come Astral Week, Moondance etc. Van Morrison come un lampo a ciel sereno diventò subito il mio musicista preferito e a distanza di trentacinque anni lo è ancora.
Sweet Thing è una canzone d’amore, verso una donna e allo stesso tempo verso “il mondo“, una delle poche sue canzoni “positive”, un canto di redenzione. Van Morrison è un cristiano (anche se ha avuto un’esperienza con Dianetics, poi subito rinnegata) e la redenzione è la chiave della sua filosofia. Che sia ovviamente una donna a redimerlo è quasi secondario, esulta sia per la redenzione in quanto tale e per la donna che ne è responsabile. Questa, a mio avviso, è una delle migliori canzoni di Van. Solleva l’anima e lenisce il dolore. Una buona musica come questa ti fa sentire meglio, esattamente quando ne hai bisogno.
Le mie recensioni di Van Morrison in questo blog: qui.
E’ sicuramente il più grande tema sonoro della saga filmografica di James Bond. La musica per la canzone è stata composta da John Barry, con i testi di Hal David. John Barry aveva già lavorato ai film di Sean Connery – James Bond e aveva anche arrangiato l’iconico tema principale di Monty Norman “James Bond Theme”. Hal David è stato uno dei cantautori di maggior successo al mondo nella storia della musica popolare. Meglio conosciuto per la sua collaborazione con Burt Bacharach, è stato dietro alcuni dei più grandi successi degli anni ’50, ’60 e ’70, tra cui “Magic Moments”, “Walk on By” e “I Say a Little Prayer”. Nel 1969, Louis Armstrong era una star iconica del jazz e della musica popolare, era noto per la voce roca immediatamente riconoscibile e per il suo modo di suonare la tromba molto influente.
Tuttavia, Louis era troppo malato per suonare la sua tromba in quel momento, fu quindi sostituito da un altro musicista. Secondo quanto riferito, fu l’ultima sessione di registrazione di Louis prima di morire nel 1971. La canzone è stata pubblicata come singolo sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito, nel dicembre 1969. Sorprendentemente, all’epoca non figurava in nessuno dei due paesi. Ebbe finalmente successo nel Regno Unito 25 anni dopo. Nel 1994, è stato utilizzata in una pubblicità di birra Guinness. Questa riedizione lo ha visto raggiungere il terzo posto nelle classifiche del Regno Unito. Louis Armstrong, nel frattempo si era spento nel 1971: un infarto portò via per sempre il suo sorriso e la sua contagiosa voglia di vivere, ma non riuscì a far dimenticare il grande lascito e l’influenza del jazzista sulla storia della musica, che aveva un debito infinito nei suoi confronti. Nonostante l’insuccesso iniziale We have all the time in the world, il suo capolavoro incompreso e postumo, era riuscito alla fine a strappare se non proprio tutto, almeno un po’ di tempo al mondo per rendergli giustizia.
Pensiero
Sono legatissimo a questo brano. E’ stato ed è ancora una delle colonne portanti della mia vita. Tra le canzoni più belle d’amore mai registrate, ogniqualvolta che ascolto We have all the time in the world, mi prende un magone, una fitta al petto che si trasforma in brividi, e mi fa accapponare la pelle, e lo fa ancora in maniera fantastica dopo 50 anni.
Quando la registrazione ebbe inizio Armstrong vi mise tutto se stesso, riuscì a imprimere in We have all the times in the world un’emozione palpabile e commovente, facendo quasi trapelare la consapevolezza e la malinconia di chi vive i suoi ultimi anni e vede sfuggire via a poco a poco la bellezza della vita.
Tra tutte le canzoni belle che hanno accompagnato la mia esistenza, questa è quasi sicuramente quella più importante. Non è facile spiegare le sensazioni che provo, un forte sentimento che, attraverso il suono, mi inebria della bellezza della vita. Emozioni che solo la musica riesce a donarmi e le parole per quanto sincere non riescono ad esprimere.
Have a Little Faith in Me è un brano musicale scritto e interpretato da John Hiatt, che appare nel suo album “Bring the Family“.
Dopo sette dischi pubblicati in studio, il primo risale al 1974, nel 1987 incide il suo ottavo album ed è quello che lo porta al successo planetario. Hiatt ha trentacinque anni ed è reduce da una serie di fatti luttuosi che lo mandano in depressione ma grazie ad una cerchia di amici musicisti, registra “Bring the Family” che in qualche modo ne dichiara la rinascita. Un nuovo amore e una nuova vita danno la forza di continuare. Il passato è ieri e oggi è il domani. Questo disco è un sogno ed è la fine di un incubo.
Tra gli artisti che hanno eseguito la cover del brano vi sono:
Bill Frisell in versione strumentale nell’album Have a Little Faith (1992); Joe Cocker nell’album Have a Little Faith (1994); Jewel per la colonna sonora del film Phenomenon; Jon Bon Jovi per il film Capodanno a New York. Mandy Moore, che lo ha pubblicato come singolo nel 2003 estratto dall’album Coverage.
Pensiero
Difficile trovare una canzone che non sia all’altezza in questo album, poi facendo una grande selezione, “Have A Little Faith” è probabilmente la più significativa, per il testo e per il suono che il questo caso si limita ad un pianoforte, e che pianoforte! Piano e voce che per quattro minuti si intrecciano come la trama e l’ordito. Un piano ‘battente’ con pochissime note, quasi a tenere il passare del tempo e la voce profonda e lirica che pochi sanno utilizzare come Hiatt. Non c’è molto altro da aggiungere su questa canzone, il testo tradotto, come al solito non rende merito al brano ma in qualche modo rende l’idea del momento che sta attraversando.
Quando la strada si fa buia e non riesci più a vedere Lascia che il mio amore getti una scintilla e abbi un po’ di fiducia in me E quando le lacrime che piangi sono tutto quello in cui puoi credere Permetti a queste amorevoli braccia un tentativo e abbi un po’ di fiducia in me E quando il tuo cuore segreto non riesce a parlare così facilmente Vieni qui tesoro, inizia con un sussurro ad avere un po’ di fiducia in me E quando sei con la schiena al muro basta che ti giri e vedrai, tu vedrai Ti prenderò, fermerò la tua caduta solo abbi un po’ di fiducia in me E abbi un po’ di fiducia in me beh, ti ho amata per così tanto tempo ragazza Non aspettandomi nulla in cambio solo che tu avessi un po’ di fiducia in me Vedi il tempo, il tempo è nostro amico perché non c’è fine per noi E tutto quello che devi fare è avere un po’ di fiducia in me, ho detto che ti sosterrò, ti sosterrò Il tuo amore mi dà abbastanza forza perciò abbi un po’ di fiducia in me Ho detto ehi, tutto quello che devi fare per me è avere un po’ di fiducia in me.
Jimi Hendrix pubblica questo singolo nell’album d’esordio ‘Are You Experienced’ nel 1967.
Purple Haze in inglese significa ‘Foschia viola’ e molte sono le ipotesi sul significato di questo titolo. Fra le tante, due sembrano le più probabili: sulla droga o su un romanzo. Con il termine Purple Haze viene indicato sia un tipo di marijuana, che un genere di LSD. Questa teoria sembra supportata da un verso della canzone, che recita: “Excuse me while I kiss the sky”, letteralmente “Scusami mentre bacio il cielo”. Infatti, l’espressione “kiss the sky”, baciare il cielo, viene impiegata per indicare gli effetti della cannabis. Pare che, mentre componeva il testo di Purple Haze, Jimi Hendrix stesse leggendo un romanzo di Philip José Farmer dal titolo Notte di Luce. Si tratta di un racconto fantascientifico, che parla proprio di una sorta di raggio letale viola. Forse, allora, Purple Haze è un omaggio a questo romanzo.
Esistono numerose cover di Purple Haze, tra le quali una versione di Ozzy Osbourne durante il concerto Moscow Music Peace Festival del 1989 a Mosca, e quella di Frank Zappa durante il live The Best Band You Never Heard in Your Life del 1991. Davide Van de Sfroos rende omaggio a Jimi Hendrix e alla canzone nel suo brano Il camionista Ghost Rider presente nell’album Yanez
Pensiero
Questa come ‘Like a Rolling Stone’ di Bob Dylan, appartiene alla mia adolescenza. Fu grazie a ‘Supersonic’, programma radiofonico in onda sul secondo canale di Radio RAI dal 4 luglio 1971 al 16 dicembre 1977, tutte le sere dalle 20.10, un appuntamento serale che divenne punto di riferimento negli anni settanta, che ascoltai per la prima volta questo brano del grande Jimi Hendrix.
Inevitabile fin dal primo ascolto l’energia sonora che trasmetteva, un fulmine che attraversava tutto il corpo e che elettrizzava anche le cellule e i neuroni più assopiti. Il modo di suonare la chitarra fu una vera rivoluzione, non aveva paragoni, non esisteva un ‘suono’ simile prima di lui e pochi ce ne furono dopo, proprio (anche) per questo, Hendrix fu unico e fu impossibile non annoverare tra i musicisti preferiti.
Hendrix fu un ciclone che attraversò la scena del rock perché oltre ad essere stato un eccellente chitarrista e un grandissimo solista, era impossibile quindi non lasciasse un segno indelebile nella vita di un adolescente degli anni ‘settanta’ che amava la musica rock come ero io.
Hendrix poi, come pochi altri, ebbe una vita molto breve, morì a 28anni, con all’attivo solo quattro dischi e questo aumentò il suo mito e si sa, gli adolescenti crescono con i miti.
Bob Dylan inserì questo brano nell’album ‘Highway 61 Revisited’ nel luglio del 1965. Per prima cosa va ricordato che questa canzone ha sempre primeggiato in tutte le classifiche mondiali, classificandosi al primo posto nella rivista Rolling Stones per quasi vent’anni fino al 2021.
Like a rolling stone è ispirata da una ragazza che Bob Dylan conosceva di nome Edie Sedgwick, morta a soli 28 anni distrutta dalla droga. Il testo di questa grande canzone è una lezione sulla vita, in quanto parla dei valori che ritiene più importanti, l’integrità, l’onestà e la famiglia.
Nel corso degli anni è stata rifatta e coverizzata da numerosi artisti tra cui Bob Marley, i Bon Jovi, i Rolling Stones, Green Day, Jimi Hendrix e David Gilmour.
Pensiero
Sono molto legato a questo brano non solo perché mi accompagna dall’adolescenza ma perché ancora oggi, dopo centinaia di ascolti, riesce a darmi vibrazioni. I testi sono importanti e tra i primi a prendere atto di questa rivoluzione sono i Beatles che da quel momento cominceranno a dare maggiore importanza ai testi nelle loro canzoni – “Dylan ci mostra la strada”, dirà John Lennon in un’intervista nel 1965 – pubblicando nel dicembre dello stesso anno Rubber Soul, il disco con cui entreranno nella loro maturità artistica.
La sua struttura armonica e il phatos che riesce a trasmettere è unico. E’ forse la prima canzone dove gli strumenti seguono il cantato – e non viceversa, come accade di solito, rendendola unica e rivoluzionaria, l’accompagnamento musicale insegue la voce di Dylan rotolando dietro al testo, vero perno della canzone come mai era avvenuto nel rock.
Il metro infallibile per riconoscere la grandezza e la profondità di una canzone è la Piloerezione, alt, attenzione, che non si pensi male, la Piloerezione altro non è che la ‘pelle d’oca’ che la scienza determina come reazione della pelle provocata dal freddo. In realtà la ‘pelle d’oca’ è anche determinata dalla vibrazione sonora che il cervello, tramite il senso uditivo, trasmette al corpo attraverso la pelle. Questo avviene quando l’emozione è profonda e, questo brano lo è.
Da quindici anni è mia consuetudine stilare una classifica dei dischi più belli che ho ascoltato. Questo 2021 non è stato particolarmente esaltante. A parte qualche novità, almeno per me, tipo: i Lowe, Dominique Fils-Aime e gli Another Sky, i restanti sono nomi noti. Questo non significa che i dischi prodotti non siano di buona fattura anzi, ce ne sono alcuni tipo: Van Morrison, Nick Cave & Warren Ellis e Ryam Adams, gli africani Ballaké Sissoko, Femi Kuti e il cubano-africano Omar Sosa e pochi altri che meritano sicuramente ascolto, meglio se attento, proprio perché non sono dischi banali. Non ci sono ‘capolavori’ e l’unico ‘ottimo’ se lo prende il redivivo Van “The man” che, ancora una volta, dopo molto tempo, sforna quello che dagli anni ’90 è la sua miglior produzione. Latest Record Project Volume I: è un disco doppio (2CD), con 28 brani e 127 minuti di musica eccelsa.
Su ‘artesuono‘ la mia classifica completa con le relative recensioni (non mie).