Muddy Waters: il “padre” del Blues “elettrico”

Il 30 aprile 1983, a Westmont, Illinois, USA, si spegneva il grande cantautore e chitarrista Muddy Waters. Nato nel 1913 a Rolling Fork, Mississippi, USA, il suo vero nome era McKinley Morganfield. Il soprannome “Muddy Waters” gli fu dato dalla nonna durante l’infanzia, riflettendo la sua abitudine di giocare nel fango lungo le rive del Mississippi. All’età di nove anni iniziò a suonare l’armonica e a sedici anni la chitarra. Continuando a lavorare nei campi di cotone, iniziò a guadagnare suonando nelle feste locali. Prese lezioni di musica dal chitarrista e violinista Son Slims, con il quale fece anche la sua prima registrazione. Per un periodo gestì un Juke Joint, un locale improvvisato per il gioco d’azzardo e la musica dal vivo, prima di trasferirsi a Chicago, dove il blues stava emergendo come genere predominante. Lavorando come autista, si esibiva nei locali serali, venendo notato e ottenendo il suo primo contratto discografico con la Chess Records. Formò una band eccezionale con Little Walter all’armonica, Jimmie Rogers alla chitarra, Elga Edmonds alla batteria e Otis Spann al piano. Con questa formazione registrò vari dischi e ottenne successo negli anni ’50. Il 1958 segnò il suo successo in Europa con un tour in Inghilterra, dove il suo blues elettrico fece sensazione. Successivamente, registrò album in collaborazione con icone del blues come Howlin’ Wolf, Little Walter, Rory Gallagher, Bo Diddley e Steve Winwood. Il suo stile di blues elettrico, definito “urbano”, influenzò generazioni di musicisti e fu considerato un “anello mancante” tra il Delta Blues e il Rock’n’Roll. Ricevette numerosi Grammy Awards e Blues Music Awards, fu inserito nella Rock’n’Roll Hall of Fame e nella Blues Foundation Hall Of Fame. Nel 1994 gli fu dedicato un francobollo americano da 29 centesimi. Considerato il “padre del Chicago Blues” e uno degli artisti più influenti del XX secolo, la sua vita fu raccontata nel film “Cadillac Records” del 2008.

Popular Music (20. Cantautorato)

PrefazioneIndice

Mentre nei primi anni ’60 con il beat prendeva forma il primo rock italiano, alcuni musicisti di estrazione più colta, venivano influenzati da un modo di scrivere canzoni che in Francia esisteva da tempo. Personaggi come George Brassens, Jacques Brel, Charles Aznavour, Gilbert Bécaud, ecc. su una musica spesso essenziale, per non dire scarna, stendevano testi che parlavano d’amore in modo non banale o si occupavano di argomenti sociali o politici come la difficoltà di trovare lavoro, l’emarginazione o la ribellione a un potere sentito come oppressivo.
Da questi esempi, giovani musicisti come: Piero Ciampi (1934 – 1980), Gino Paoli (1934), Bruno Lauzi (1937 – 2006), Sergio Endrigo (1933 – 2005), Luigi Tenco (1938 – 1967), Fabrizio De Andrè (1940 – 1999), Giorgio Gaber (1939 – 2003), Francesco Guccini (1940) o Enzo Jannacci (1935 – 2013), ognuno con la propria personalità ed elaborando un proprio stile, presero spunto per creare una proposta artistica totalmente nuova per l’Italia.
La canzone non poteva più essere un semplice momento di svago: doveva contenere un «messaggio».
Una piccola grande rivoluzione.
Tutto ciò ebbe grande successo preso i giovani che finalmente potevano riconoscersi totalmente in quello che ascoltavano come in chi lo cantava.

Impossibile stilare una classifica di merito nel ricco panorama dei cantautori italiani che, dai primi anni ’60, avrebbe vissuto una stagione d’oro per almeno due decenni. A Fabrizio de André, tuttavia, viene universalmente riconosciuta una posizione di preminenza.
Il genovese fu uno dei primi a portare la canzone d’autore in Italia e, da quel momento, ha mantenuto salda la propria popolarità grazie a una produzione che, sostenuta da rigorosi principi artistici, non ha mai conosciuto un attimo di cedimento ed è sempre stata ad altissimo livello.

—————————————–

Disco: Fabrizio de Andrè – La guerra di Piero (1964)

Forse non è una delle canzoni più belle di de André, ma è certo una delle più conosciute e, a suo modo, un brano storico. E’ infatti la prima canzone il cui testo è entrato in un’antologia scolastica: un fatto impensabile solo pochi anni prima. La guerra di Piero è molto semplice con la sua struttura di ballata: un soldato in terra incontra il nemico, potrebbe sparargli ma non lo fa, dopo tutto quella persona «che aveva il suo stesso identico umore ma la divisa di un altro colore» non gli ha fatto niente. Il nemico approfitta dell’esitazione, spara e lo uccide. Questo, che fu forse uno dei primi esempi di impegno sociale in musica, divenne una sorta di inno per quanti, già allora, protestavano contro le guerre che insanguinavano il mondo.

—————————————–

Ai cantautori degli anni ’60 ne seguirono molti altri dagli anni ’70 in poi. E furono tantissimi: Edoardo Bennato (1949), Claudio Lolli (1950 – 2018), Francesco de Gregori (1951), Lucio Dalla (1943 – 2013), Paolo Conte (1937). In ambito più commerciale Antonello Venditti (1949), Angelo Branduardi (1950), Ivano Fossati (1951), Enrico Ruggeri (1957) e Luca Carboni (1962). E poi Pino Daniele (1955 – 2015), Roberto Vecchioni (1943), Franco Battiato (1945 – 2021)  e più ‘leggeri’ Renato Zero (1950), Gianna Nannini e Teresa de Sio.

Con un impegno sociale più marcato con riferimenti all’ideologia di sinistra: il regista Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini, Ivan della Mea, Gualtiero Bertelli, Dario Fo e Pino Masi.

Oltre l’impegno sociale, abbracciando uno stile personale più facile, ma non per questo leggero, ignorando il succedersi di mode e tendenze: Pierangelo Bertoli e Francesco Guccini.

Guccini non è mai stato ‘solo’ un cantautore.
Da orchestrale di balera come chitarrista del complesso ‘I Gatti’, aveva iniziato a scrivere canzoni per altri (i corregionali Nomadi e Equipe 84) e perfino musica per spot pubblicitari (Amarena Fabbri) alla pubblicazione del suo primo album ‘Folk & Beat n° 1’ dove esprimeva il suo interesse per la cultura americana. E poi via via un disco dopo l’altro per i decenni successivi.

—————————————–   

Disco: Francesco Guccini – Radici (1972)

Radici è da molti considerato uno degli episodi migliori di Guccini. I testi rivelano una notevole preparazione culturale, le musiche dimostrano una ricerca di soluzioni anche inusuali per questo ambito musicale, le rime esterne e interne al verso si incastrano in un prezioso lavoro d’intarsio che (miracolo!) non appare mai forzato. Eppure tutto questo sarebbe solo un esercizio di stile, un vano sfoggio accademico, se a dare spessore non ci fosse l’autentica passione popolare della Locomotiva, la malinconica poesia di Piccola città e Incontro, l’ingenuità della favola futuribile (e verrebbe da dire… suturata) di Il vecchio e il bambino… 

—————————————–

Nella storia della canzone italiana, un caso assolutamente a se stante è rappresentato da Lucio Battisti (1943 – 1998). I suoi brani coi testi scritti da Mogol e poi Pasquale Panella, non esprimevano concetti particolarmente impegnati ma non si inquadrano nemmeno nel filone della canzone melodica tradizionale.

—————————————–

Disco: Lucio Battisti – Pensieri e parole (1971)

In questo capolavoro assoluto, Battisti e Mogol propongono una forma di canzone totalmente inedita e mai ripetuta. Qui, due voci (entrambe di Battisti) cantano due testi distinti che continuamente si intrecciano. Il protagonista parla alla propria donna, ma in un caso esprime ciò che pensa, nell’altro ciò che dice apertamente. Le due linee, anche in contrasto, diventano complementari per darci un ritratto completo. Il testo (uno dei migliori di Mogol) è ricco di immagini dalle molteplici e mai chiarite interpretazioni, ma se il significato di alcuni passaggi può restare oscuro, chiarissimo è invece il senso generale di questa canzone che esprime in maniera assolutamente geniale la perenne lotta tra quello che si è veramente (e che si pensa) e ciò che appare (e che si dice).

—————————————–

Se per tutti gli anni ’60 e ’70 la vicenda del rock italiano e quella dei cantautori avevano seguito strade assolutamente distinte, dagli anni ’80 in poi, i due percorsi iniziarono ad incrociarsi e fondersi.
I gruppi prog subirono un colpo durissimo, quasi tutti scomparvero (solo la PFM e il banco rimasero ma allontanandosi  dallo stile e dalla genialità dei primi tempi), come scomparvero i tanti gruppi pop (Pooh, Nomadi ecc.). Tuttavia in questo panorama desolante, mossero i primi passi tre personaggi che sarebbero diventati fenomeni musicali di immenso successo unendo scuola cantautorale e un inedito atteggiamento rock: Zucchero, Vasco Rossi e Luciano Ligabue.

Vasco Rossi (1952) era essenzialmente un dj (in discoteca e in una delle prime radio private italiane Punto Radio) a bocca, suo paese natale.
Presso l’emittente conduceva un programma sulla disco music e uno sui cantautori italiani dove dava spazio ai giovani esordienti della zona. Nel 1978, usci il primo album «Ma cosa vuoi che sia una canzone», non fu un successo come lo furono i successivi. Vinse un premio come rivelazione dell’anno e potè partecipare al festival di Sanremo dove arrivò ultimo con la sua «Vado al massimo».

—————————————–

Disco: Vasco Rossi – Vita spericolata (1983)

Vita spericolata è il brano che riassume tutta al vita artistica e personale di Vasco. E anche se la sua vita, oggi, non è più ‘spericolata, esagerata, maleducata’, all’insegna della folle velocità o delle notti in cui ‘non è mai tardi’, questo brano continua ad identificarlo. Musicalmente è una canzone tutt’altro che banale, con un bellissimo crescendo che sottolinea un testo che è un inno alla ribellione e alla trasgressione. Una ribellione e una trasgressione che da molti è stata anche travisata, ma che nello spirito di Vasco voleva essere soprattutto un ‘no’ deciso alle convenzioni e alle mode che ci rendono tutti uguali, all’ipocrisia e all’incapacità di scelte coraggiose e personali, pur se controcorrente.

—————————————–

Luciano Ligabue (1960) è nato a Correggio (RE). Dopo aver svolto i lavori più disparati (il bracciante, il metalmeccanico, il ragioniere, il conduttore radiofonico, il commerciante) nel 1987, fondò insieme ad alcuni amici il gruppo degli Orazero con il quale partecipò a diversi concorsi con brani che poi avrebbe inciso, come Anime in plexiglass, Bar Mario, Figlio di un cane ecc. Nel ’88 Pierangelo Bertoli incluse proprio Sogni di rock’n’roll nell’album ‘tra me e me’.

—————————————–

Disco: Ligabue – Ligabue (1990)

Spesso nell’album d’esordio finisce tutto ciò che un artista ha covato per anni. Se il lavoro di selezione tra una materiale generalmente molto vasto ed eterogeneo funziona, ci si ritrova tra le mani un lavoro come questo. Che deve molto a Springsteen nella struttura delle canzoni e nelle tematiche affrontate, ma altrettanto alla nebbia e alle campagne padane. Ballate e rock tirati che piacquero immediatamente e che fecero del disco uno dei rari debutti di grande successo del rock italiano. Dopo quel disco, Lega avrebbe regalato al proprio pubblico ancora alcuni album di alto livello dirigendosi poi gradatamente verso una proposta sempre di grande successo, quanto più avara di colpi di genio.

—————————————–

Adelmo ‘Zucchero’ Fornaciari (1955) rappresenta un caso tutto particolare.
Anche lui emiliano della provincia reggiana come Ligabue, ha condotto la prima parte della propria carriera soprattutto come autore di brani molto commerciali per altri cantanti (non particolarmente famosi). In questa veste, ad esempio, nella prima metà degli anni ’80 ha partecipato 5 volte al festival di Sanremo, oltre ad altre due in prima persona (senza essere minimamente notato)

—————————————–

Disco: Zucchero – Blue’s (1987)

Probabilmente il vertice artistico del bluesman emiliano sta nei tre lavori pubblicati tra gli anni ’80 e ’90 (Blue’s, Oro incenso & birra e Miserere). In particolare, Blue’s arrivava dopo un paio di singoli e un album che avevano messo il musicista sulla strada giusta. Qui c’è ancora il gusto della canzone, non solo del riff vincente che poi avrebbe preso il sopravvento nella sua produzione; c’è l’amore per la musica nera americana e per la migliore canzone italiana. E nel momento in cui questi due elementi si fondono, prendono forma piccoli capolavori come Dune mosse, Hai scelto me, Pippo, Senza una donna o Hey Man.

—————————————–

Lucio Dalla (1943 – 2012) è un autentico monumento della canzone italiana. Inserito qui, dopo tre ‘rockautori’ ma non può  certo essere inserito in questa categoria, come in nessun’altra: per lui la musica era una esperienza totalizzante del tutto ignara delle categorie.
Del resto dalla aveva iniziato come clarinettista jazz, era passato alla canzone commerciale (cin poco successo), aveva esplorato i territori della canzone d’autore avvalendosi dei testi di altri prima di iniziare a fare tutto da solo regalando alla storia della canzone italiana brani indimenticabili.

—————————————–

Disco: Pino Daniele – Nero a metà (1980), Vai mo’ (1981)

Questi due album non costituiscono solo la vetta artistica della lunghissima carriera di Pino Daniele, ma due dei momenti più alti dell’intera storia della canzone d’autore italiana. In entrambi la fusione tra blues, rock, jazz, tradizione partenopea, musica bianca e musica nera è assolutamente perfetta, in un equilibrio entusiasmante su cui può muoversi energia e delicatezza, sberleffo e poesia in un linguaggio vivacissimo che fonde dialetto partenopeo e slang americano. Con una ricchezza di suoni che riesce ad abbracciare tutti i colori del Golfo.

(Fine)

Popular Music (19. Italia: Il prog e fine anni ’70

PrefazioneIndice

Disco: Tito Schipa – Vivere (1937)

La canzone, ripresa negli anni ’80 da Enzo Jannacci con un’interpretazione ironica e dissacratoria, fu un grande successo del 1937 nell’interpretazione di Tito Schipa che la cantava nel film omonimo di Guido Frignone. Si tratta del canto di gioia di un innamorato abbandonato, ma… inaspettatamente felice della ritrovata libertà. Da questo punto di vista una canzone assolutamente in controtendenza con i tanti cuori spezzati delle canzoni dell’epoca, che con la sua grinta quasi sbruffonesca ben si prestava all’interpretazione dei tenori dell’epoca.

—————————————–

Disco: Domenico Modugno – Nel blu dipinto di blu (1958)

Questo brano molto più noto come «Volare» trionfò a Sanremo nel 1958. Era sovversivo fin dal modo in cui Modugno lo presentò sul palco: allargando platealmente le braccia quasi a volar via con la sua canzone, in spregio alla compostezza di maniera dei cantanti dell’epoca. E poi quell’urlo liberatorio «Volareee oh oh»… Quel gesto e quel grido provocatorio un vero terremoto nella sonnacchiosa canzonetta degli anni ’50, non ancora destabilizzata dal rock’n’roll e non ancora rivitalizzata dalla canzone d’autore. Forse tre anni dopo, Celentano non avrebbe voltato le spalle al pubblico (orrore!) Cantando, sempre a Sanremo, 24.000 baci, se Modugno non avesse spalancato le braccia. Forse gli «urlatori», senza quel grido, non avrebbero capito quale sarebbe stata la loro strada.

—————————————–

Anni ’60: dall’America e dall’Inghilterra arriva il rock italiano

Tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60, l’Italia conobbe un’espansione economica enorme, il cosiddetto «boom» o «miracolo economico». L’incremento vertiginoso del commercio internazionale, lo sviluppo industriale grazie alle innovazioni tecnologiche e alla disponibilità di nuove fonti di energia, furono alcuni dei fattori che portarono ad un deciso aumento del tenore di vita delle famiglie italiane con straordinarie trasformazioni negli stili di vita, nel linguaggio e nei consumi. Nasceva la televisione, nelle case facevano la loro comparsa lavatrici e frigoriferi, iniziavano ad avere enorme diffusioni le prime utilitarie (500 e 600 Fiat).
Fu in questa Italia del benessere e del consumismo che, all’inizio degli anni ’60, arrivò il rock’n’roll americano. E lo scandalo fu enorme.
Era musica che portava con sé una grande carica di ribellione, e pur in qualche modo ancora ancorati alla tradizione, i giovani cantanti ne colsero lo spirito. Non si era mai visto un cantante voltare le spalle al pubblico, ma Adriano Celentano (1938) lo faceva e il pubblico, quello adulto, si scandalizzava, così come si scandalizzava alle grintose interpretazioni di Mina (1940) e di tutti gli altri giovani cantanti detti «urlatori» (Betty Curtis, Tony Dallara, Joe Sentieri, il primo Giorgio Gaber, Little Tony) che, accanto a colleghi di grande successo ma non così trasgressivi (Gianni Morandi (1944), Rita Pavone (1945) ecc. «sparavano» la loro voce dai juke box.
Le canzoni, a partire dallo stesso modo di presentarle, volevano esprimere un «disappunto», ovviamente, delle generazioni precedenti che con quei figli ribelli si trovavano a fare i conti.
Tuttavia stiamo ancora parlando di una canzone abbastanza tradizionale nella propria struttura. Il primo deciso rinnovamento arrivò però solo pochi anni dopo, alla metà del decennio, sull’onda del beat giunto dall’Inghilterra.
Il beat italiano costituì così un grande momento di creatività e presa di coscienza. Nonostante tutti i suoi maggiori successi fossero di fatto versioni (cover) di pezzi stranieri cui era stato adattato un testo italiano (spesso assai diverso dall’originale), importante fu il fatto che questi gruppi si rendessero conto di come attraverso le canzoni si potessero veicolare idee e opinioni, non solo storie d’amore.
Tra i principali esponenti del beat italiano vi erano, curiosamente, diversi gruppi inglesi giunti sulla scia del successo dei Beatles e poi rimasti nel nostro Paese. Si chiamavano Sorrow, Renegades, Motowns o Primitives. Tra tutti, i più famosi furono i Rokes

—————————————–

Disco: Rokes – ma che colpa abbiamo noi (1966)

Questa canzone è uno dei manifesti del beat italiano. Si tratta della versione italiana (firmata da Mogol) di un brano del cantautore americano Bob Lind. Offre le prime composte, educate, rivendicazioni generazionali: «Sarà una bella società/fondata sulla libertà/però spiegateci perché/se non pensiamo come voi/ci disprezzate… come mai?». E ancora: «Se noi non siamo come voi/una ragione forse c’è/e se non la sapete voi/ma che colpa abbiamo noi?». Come si può vedere, ben altra violenza, negli anni, avrebbero espresso certe rivendicazioni giovanili (si pensi al punk), ma allora, per cominciare a muovere le coscienze, andava bene ance così.

—————————————–

Da quel ricchissimo panorama musicale, popolato anche da celebri band italiane come Equipe 84, Nomadi, Ribelli, Corvi, Bisonti, Delfini e molti altri, prese il via il rock italiano, negli anni quasi sempre modellato sulle influenze anglosassoni, ma a volte di una grande originalità riconosciuta anche nei paesi ove il rock era nato.

Anni ’70: prog e i suoi fratelli

Come detto, il rock italiano (e quello dell’Europa continentale in genere) è figlio di quello anglosassone. Tuttavia particolarmente interessante fu – nei primi anni ’70 – la nostra scena progressive.
Mentre l’hard rock non fece molti proseliti tra i musicisti di casa nostra, gruppi inglesi come Genesis, yes, Jethro Tull o King Crimson, rappresentavano invece un modello per moltissime band italiane. Tuttavia, gruppi come Premiata Formerai Marconi (o PFM), Banco del Mutuo Soccorso (BMS), Osanna o Orme, non si limitarono ad imitare uno stile, ma coniugarono, con una perfezione mai più raggiunta dal nostro rock, stilemi anglosassoni e tradizione musicale italiana: quella popolare e folklorica (Osanna), quella classica (le Orme e i New Trolls) e quella del melodramma e del barocco (BMS e PFM).

—————————————–

Disco: PFM – Per un amico (1971)

C’è stato un momento in cui gli italiani hanno cercato una strada italiana al rock, senza limitarsi a ripetere pedissequamente i modelli anglosassoni. Splendido esempio, questi spariti ricchissimi di inventiva e creatività in cui non è difficile rintracciare momenti assolutamente italiani. Ci sono la tarantella e il melodramma, il gusto peer la melodia e tutto il nostro sole. Le costruzioni dei brani sono piuttosto complesse, hanno righe parti strumentali caratterizzate dai timbri desueti di flauto e violino, e in alcuni casi lunghe durate, eppure, all’ascolto, la musica fluisce con grande naturalezza e facilità. Un lavoro che seppe affascinare gli ascoltatori stranieri, oltre che quelli italiani, e che a distanza di decenni conserva ancora intatta la freschezza e l’originalità che hanno influenzato generazioni di musicisti a venire.

—————————————–

Fine anni ’70: largo all’avanguardia

Come avvenne in tutto il mondo, anche in Italia l’avvento del punk sconvolse la scena musicale della seconda metà degli anni ’70. In molti centri nodali: a Bologna, Firenze e Pordenone  soprattutto, ma anche a Milano, Roma e Napoli conobbero una scena simile più o meno. Si misero in luce molti gruppi come: Gaznevada, Skiantos, Litfiba e poi Windopen, Caffè Caracas o Tampax, stanchi di tutto ciò che il rock e la canzone d’autore avevano propinato fino a quel momento.
Tra le esperienza più valide, vanno citati i bolognesi Skiantos che furono precursori del cosiddetto genere demenziale che poggiava le proprie solide basi teoriche sulle intuizioni del giovanissimo leader Roberto «Freak» Antoni (1954 – 2014).

—————————————–

Disco: Skiantos – Monotono (1978)

Dopo il debutto di «Inascoltabile», questo secondo album degli Skiantos fu un autentico manifesto contro i cantautori impegnati e il rock più stantio. Un manifesto scritto con un linguaggio volutamente «basso», fatto di rime baciate e testi stupidi che forse non volevano essere altro, o forse nascondevano molto di più. Testi che ridicolizzavano e sdrammatizzavano una musica spesso dura (punk, dopo tutto): «Le massaie fan la code/per comprare la mia broda/e per essere alla moda/io ci metto anche la soda» (Epdadone), «Io me la meno/di notte mi dimeno/domani prendo il treno/e vado fino a Sanremo» (Io me la meno), o «Se tu bruci una banca/il direttore poi si sbianca/dagli in testa anche una panka/e vedrai che poi la pianta!) (Panta Rock).

—————————————–

L’autentica filosofia del punk (per non dire la dottrina politica del movimento) fu invece adottata dagli anni ’80 in poi, da band che vissero essenzialmente nelle cantine senza quasi mai assurgere a una qualche popolarità se non di nicchia (escludendo forse il solo caso degli emiliani CCCP)

—————————————–

Ipse Dixit: «Decisi insieme ai mie amici, spronato dalla musica che usciva dalle cantine, di mettere in piedi una band. Il nostro modello erano gli Skiantos e i Gaznevada, mi piaceva il nonsense demenziale di Freak Antoni & Co. Rimasi rapito dalle loro idee. Personalmente fui spronato dalla scena bolognese e dal punk a mettere in piedi una band. Mi sentivo coinvolto dal messaggio crudo e diretto del punk: tutti potevano suonare anche se non sapevano suonare anche se non sapevano tenere in mano nessuno strumenti. L’importante era esporsi e metter a nudo la propria creatività.»

(Luca carboni in O. Rubini – A. Tinti «Non disperdetevi»)

Popular Music (18. Il rock: Africa e anni ’90)

PrefazioneIndice

Attorno alla metà degli anni ’80, l’occidente si accorse improvvisamente della musica africana.
Successe che nel 1986 Paul Simon (1941), grande cantautore americano che negli anni ’60 aveva avuto un enorme successo in coppia co Art Garfunkel, pubblicò l’album ‘Graceland’, disco splendido, profondamente influenzato dalle ritmiche e dalle soluzioni sonore e musicali dei musicisti sudafricani e ghanesi che vi avevano contribuito.
La musica occidentale di accorse così dell’immensa ricchezza di quell’universo sonoro, e moltissimi furono i musicisti che vi si ispirarono. E, quel che più conta, si aprirono le porte a molti artisti che dall’Africa arrivarono a proporre la propria musica in prima persona in Europa e in America: Salif Keita e Mori Kate dalla Guinea, Ray Lema dallo Zaire, i senegalesi Toure Kunda e Youssou N’Dour e moltissimi altri godettero per alcuni anni di grande popolarità.
Va detto comunque che non era la prima volta che musicisti africani ottenevano grande successo nel… nord del mondo: basti pensare, dagli anni ’60 in poi, a una star come Miriam Makeba, o al gruppo degli Osibisa, al sassofonista Manu Dibango, al trombettista Ugh Masekela o a Fela Kuti, alfiere dell’afrobeat.

Anni ’90: il britpop

Così come erano stati frenetici gli anni ’80, gli anni ’90 furono piuttosto… sonnacchiosi. Probabilmente il fenomeno più rilevante del decennio, in Inghilterra, artisticamente e commercialmente, fu quello del britpop. Niente di clamoroso o particolarmente innovativo: gruppi come Pulp, Suede, Verve, Supergrass, Blur e oasi si limitarono a fondere strutture musicali anni ’60 e ’70, innervandolo con i nuovi suoni sviluppatosi negli anni ’80. 

Sta di fatto che, però, già alla fine del decennio si aveva già dato tutto e l’affermarsi di  nuove band come Radiohead, Coldplay, Placebo, Stereophonics, ecc. legittimarono la creazione di una nuova etichetta: new britpop. Ma si era già nel nuovo millennio.
Contemporaneamente ha avuto una vita breve ma intensa un altro interessenza genere che il grande critico musicale Simon Reynolds battezzò post rock. Di fatto la sua caratteristica era di proporre una musica che fondeva elementi rock con altri mutuati dal jazz e dalla musica classica contemporanea, dando vita a una proposta intensa, rarefatta e introspettiva.

Il nuovo millennio
Difficile individuare negli ultimi anni qualche filone, scuola o genere unitario che abbia caratterizzato l’inizio del nuovo secolo. Certo non sono mancati e non mancavano gruppi e musicisti interessanti come Kasabian, Artic Monkeys, Franz Ferdinand, Muse, Tortoise, Mogwai, Belle and Sebastian e i Talk Talk.

La disco music

La nascita di un «genere»
Quando è nata la disco music (o semplicemente disco)?
Difficile dirlo, probabilmente nei primi anni ’70.
In questa musica ‘nuova’, confluivano generi e stili diversi: funk, soul, influenze tropicali il pop bianco delle grandi orchestre.
Nel 1973, la Love Unlimited Orchestra di Barry White (1944 – 2003) portò al primo posto della classifica dance USA un brano intitolato ‘Love’s theme’, nel 1974 entrarono in classifica una dopo l’altra ‘Never con way goodbye’ di Gloria Gaynor a altri brani di Kool & The Gang, Shirley & Company, Hues Corporation e di George McCrae.

—————————————–

Disco: Gloria Gaynor – Never can way goodbye (1975)

Album fondamentale nella storia della disco. Il produttore Meco Monardo (che otterrà grandissimo successo con la riedizione disco della colonna sonora di ‘Star Wars’) costruì nella prima facciata un medley di tre canzoni passando senza soluzione di continuità da Honeybee alla title track quindi alla celeberrima Reach out. Il medley, che per tutto il 1975 imperversò nelle radio e sulle piste, aveva un suono in odore di Philly Sound con diverse break strumentali piazzati in punti strategici su cui potevano effettuare i messaggi. Questa operazione che riproponeva ‘già pronto’ il lavoro del dj ebbe un grande seguito e negli anni fu riutilizzata in molti altri brani di successo.

—————————————–

Se Barry White può essere considerato uno dei precursori della disco music, altri produttori stavano lavorando, nello stesso periodo, in quella stessa direzione. A Philadelphia, ad esempio, Kenny Gamble e Leon Huff e rinomi di punta Billy Paul e Teddy Pendergrass, gli O’jays, le Three Degrees e i Blue Notes di Harold Melvin

A Miami sempre nel 1974, raggiunse la cima delle classifiche anche Rock your baby di George McCrae, euna certa notorietà la ebbe la TK Records ed Henry Stone.
Henry Stone ebreo e bianco portò all’enorme successo i K.C. & The Sunshine Band

Nel ’76 la disco music era di quasi esclusivo appannaggio della gente di colore, solo due anni dopo, nel ’78, invece la disco dominava qualsiasi classifica, invadeva la programmazione di qualsiasi stazione radio, musicava gli spot pubblicitari e influenzava pesantemente la produzione musicale di artisti rock, come Rolling Stone, David Bowie, Rod Stewart o Santana.
Come per il jazz e per il rock, perché un fenomeno musicale di origine nera assurgesse a popolarità mondiale, era stato necessario che se ne appropriassero i musicisti bianchi, nel caso della disco, i Bee Gees.
I Bee Gees non erano nati come musicisti disco: i tre fratelli Barry, Robin e Maurice Gibb, avevano dominato le classifiche pop degli anni ’60 con vari singoli. Però quando la carriera sembrava lanciata a mille si interruppe quasi di colpo, dissidi interni portarono alla divisione del trio e ciascuno intraprese con scarsissimo successo una propria carriera. Nel ’75, alla disperata ricerca di qualcosa che riportasse in auge i tre, ci fu il miracolo. I vecchi Bee Gees melodici e languidi non c’erano più, il loro pop bianco si era trasformato in un funk di facile presa che faceva faville e il singolo Mr. Jive li riportò in vetta alle classifiche.
Era disco music, sissignori: c’erano finalmente arrivati anche i bianchi.

—————————————–

Disco: Saturday night fever – O.S. (1977)

Quando si parla della colonna sonora del film disco per eccellenza, si finisce sempre per parlare dei Bee Gees, anche se nel disco non ci sono solo loro. Ma la cosa è inevitabile. I maggiori successi dell’album (Stayin’ alive, How deep is your love, Night fever, More than a woman, You should be dancin’) sono dei fratelli Gibb, e se accanto a loro vi sono anche comprimari di tutto rispetto (Kool & the Gang, K.C. & the Sunshine Band, Tavares) ad essi i tre bianchi dalle voci in falsetto lasciarono solo le briciole: Boogie shots a K.C., e soprattutto Disco inferno ai Trammps. Tutto ciò impedisce di considerare l’album una credibile antologia della disco music anche se la sua importanza nella diffusione del fenomeno fu assolutamente fondamentale.

—————————————–

Ipse Dixit: «La musica quest’anno si misura in battute al minuto, fra 122 e 144: la chiamano «Disco». Sembra che tutto il mondo abbia voglia di ballare. Da Rio a Parigi, dall’Italia alla sua patria, New York City, la discoteca è diventata meta di una generazione nuova e di una vecchia che si è convertita. Disco è la parola per tutto quello che oggi significa danza. Perché disco, incredibilmente, è diventato il nuovo esperanto musicale e sta per influenzare la storia della musica a venire. Nessuna via di fuga. Disco è la nuova maniera di dimenticare l’arrivo del 2000, è la chiave per lasciarsi alle spalle gli anni ’60. E’ la gioia, un Popper per sfrecciare sui confini del totale abbandono dal controllo dei sensi. Eppure è la moda-musica più tecnologica, comandata e controllata che sia stata prodotta. Bene e male in lotta. La prima massiccia alternativa danzante dai tempi del rock’n’roll. E, infine, la più grossa operazione commerciale nel campo dello spettacolo da sempre».

(Carlo Massarini, Popster – maggio 1979)

La musica è universale!

La musica è davvero universale! Provoca emozioni e sensazioni corporee simili in tutte le culture.
Un nuovo studio del Turku PET Center in Finlandia ha dimostrato che la musica evoca emozioni e sensazioni corporee simili in tutto il mondo.

La musica potrebbe essere emersa durante l’evoluzione della specie umana per promuovere l’interazione sociale e il senso di comunità, sincronizzando i corpi e le emozioni degli ascoltatori: la musica può essere sentita direttamente nel corpo.

Basti pensare che quando ascoltiamo la nostra canzone preferita, siamo sopraffatti dall’impulso di muoverci a ritmo.

La musica può attivare il nostro sistema nervoso autonomo e persino provocare brividi lungo la schiena. Ora un nuovo studio del Turku PET Centre in Finlandia mostra come la musica emotiva evochi sensazioni corporee simili in tutte le culture.

La musica che evocava emozioni diverse, come felicità, tristezza o paura, ha causato sensazioni corporee diverse nel nostro studio. Ad esempio, la musica allegra e ballabile è stata percepita nelle braccia e nelle gambe, mentre la musica tenera e triste è stata percepita nella zona del petto.

Lo studio ha incluso complessivamente 1.500 partecipanti occidentali e asiatici che hanno valutato le emozioni e le sensazioni corporee evocate dalle canzoni occidentali e asiatiche.

Le emozioni e le sensazioni corporee evocate dalla musica erano simili tra gli ascoltatori occidentali e asiatici. Le sensazioni corporee erano anche collegate alle emozioni indotte dalla musica.

Alcune caratteristiche acustiche della musica sono state associate a emozioni simili sia negli ascoltatori occidentali sia in quelli asiatici. La musica con un ritmo chiaro era avvertita come felice e ballabile mentre la dissonanza nella musica è stata associata all’aggressività.

Se ne deduce, quindi, che l’influenza della musica sul corpo è universale. Le persone si muovono al ritmo della musica in tutte le culture, movimenti e vocalizzazioni sincronizzati sono un segno universale di appartenenza.

via | greenme

Popular Music (17. Europa – Il rock fine anni ’70 e ’80)

PrefazioneIndice

Il punk prende le mosse negli Stati Uniti attorno alla metà degli anni ’70. Solo dopo sbarca in Inghilterra. Ambasciatori di questa nuova musica, furono il primo album dei Ramones (omonimo) e l’ex manager dei New York Dolls. Costui si chiamava Malcom McLaren, un 25enne londinese trasferitosi in Usa, che, tornato a Londra, radunò un gruppo di scalciati musicisti da lui battezzati Sex Pistols. Forse McLaren voleva solo lanciare una moda, ma quella ‘nuova cosa’ trovò terreno fertile in una generazione che sentiva l’esigenza di ribellarsi contro l’industria discografica e spazi vitali negati. Se infatti alle sue origini il rock era immediatezza e ribellione, cosa avevano di autenticamente rock le suites di 40 minuti di Mike Oldfield (1953) autore di un album di enorme successo e grande bellezza come ‘Tubular bells’, o le intricatissime costruzioni musicali del progressive, o ancora, certo pomposo e prolisso hard rock?
Dunque il punk esplose fragorosamente a Londra dando voce a spazio a centinaia di giovani che non aspettavano che l’opportunità di scatenarsi in maniera finalmente libera.
Tuttavia, se il punk ha avuto socialmente una carica dirompente ed è stato concettualmente rivoluzionario visti i tempi e gli stili imperanti, dal punto di vista strettamente musicale non fu una vera rivoluzione: di fatto riprendeva caratteristiche già nel rock come spregiudicatezza dei temi, immediatezza, ingenuità, ritorno a canzoni brevi e immediate e dalla struttura semplicissima.
Dunque le caratteristiche distintive del punk erano:
– Grande velocità e brevità dei brani
– Ritmica martellante e non elaborata
– Formazione tipo con 2 chitarre, basso, batteria, ma niente tastiere
– Canzoni dalla semplice struttura strofa/ritornello a volte con bridge (intermezzo centrale)
– Tecnica esecutiva non necessariamente ineccepibile (anzi!)
Va sottolineato come per i musicisti punk l’esigenza primaria era esprimersi, non farlo in maniera accurata come solo pochi anni prima. Durante il primo concerto dei Ramones in Inghilterra, il 4 luglio 1976, il gruppo incontrò alcuni fans che erano anche musicisti: erano membri dei Sex Pistols e dei Clash. Paul Simonon disse che i suoi Clash non avevano ancora fatto nessun concerto perché non si sentivano ‘abbastanza bravi’, Johnny Ramone gli rispose: ‘Voi siete pazzi, noi suoniamo male, ma non è necessario essere bravi, basta andare sul palco e suonare. Dopo due giorni i Clash tennero il loro primo concerto.
Gruppi come Sex Pistols, (per loro di fatto uno solo album in studio, ‘Never mind the bollock’ del 1977, ma fondamentale per la storia del rock), Damned, Clash, e moltissimi altri diedero vita ad una breve e intensa stagione musicale che di fatto azzerò completamente tutto quello che era esistito prima e gettò le basi per quanto sarebbe venuto dopo.
Travolti da questa ondata, i ‘mostri sacri’ del panorama rock precedente finirono infatti per perdere consensi: sopravvissero a questa rivoluzione (e all’odio delle giovani generazioni di musicisti e ascoltatori) i pochi che nella loro carriera erano rimasti aderenti all’idea di un rock considerato come espressione artistica immediata, sincera e non artefatta, come Bruce Springsteen, Rolling Stones, Bob Dylan, Neil Young o Lou Reed. Accanto a loro, quelli il cui successo era tale da non poter essere scalfito dal succedersi delle mode (Queen, Bowie) ed alcun eroi del pop come i più volte citati Elton John, Madonna, Paul McCartney o i Genesis che dopo l’uscita di Peter Gabriel avevano gradatamente abbandonato il progressive per una musica più semplice e di maggior successo commerciale.
Quella generazione di musicisti violenti e ribelli era comunque impreparata a confrontarsi con le regole dell’industria discografica (e magari cambiarle) e la loro musica poteva essere perfetta per demolire l’ordine precostituito ma, basata su una povertà formale assoluta, non aveva alcuna possibilità di resistere al tempo.
Il punk rock, nelle forme in cui era esploso, si esaurì nel giro di pochi anni: morì ‘ufficialmente’ nel 1979 con la morte violente (e mai chiarita del tutto) di Syd Vicious bassista dei Sex Pistols e nel momento in cui alcuni gruppi, come i Clash, cedettero alle lusinghe delle major discografiche o, semplicemente, sentirono l’esigenza di affinare ed elaborare la loro proposta musicale. In particolare i citati Clash nella loro carriera avrebbero realizzato album fondamentali per la storia del rock come ‘London Calling’ o ‘Sandinista’, ma i fans della prim’ora non perdonarono mai loro di ‘essersi venduti a logiche commerciali’.
Il punk della prima ondata, dunque, durò pochi anni, tuttavia fu da quel ciclone e dal rinnovamento che esso portò nel panorama musicale, che presero origine le esperienze più significative degli anni ’80. 

—————————————–

Ipse Dixit: «Sono un anticristo/sono un anarchico/non so cosa voglio/ma so come averlo/voglio distruggere la gente comune/perché voglio essere un anarchico/non un cagnolino/anarchia per la Gran Bretagna/primo o poi arriverà/forse sto vivendo il momento sbagliato/fermate il traffico/il tuo sogno è fare shopping in un supermercato/(ecco) perché io voglio che l’anarchia sia in città/di tanti modi di avere quello che vuoi/io uso il meglio/io uso gli altri/io uso il nemico/io uso l’anarchia/perché voglio che l’anarchia/sia il solo modo di essere/è questa la M.P.L.A. o l’U.D.A. o l’I.R.A.? Io pensavo fosse la Gran Bretagna/o un altro paese/un’altra stupida tendenza/voglio che sia anarchia/voglio che sia anarchia/lo capisci?/allora incazati/distruggi» (Sex Pistols, Anarchy in UK)

—————————————–

Fine anni ’70: r’n’b, ska e reggae

Mentre infuriava il punk, le nuove generazioni, avevano però anche l’esigenza di divertirsi, di ballare… C’è chi lo faceva al ritmo della nascente disco music, chi invece preferì recuperare il vecchio rhythm’n’blues, considerata si ‘solo’ una musica fisica, divertente e danzereccia e quindi lontana dai presupposti del punk, ma che nella sua immediatezza e ‘sincerità’ non tradiva lo spirito della nuova musica giovane.
Spesso, tuttavia, una grande energia danzereccia nascondeva nei testi tematiche sociali. Lo ska ad esempio, parla degli operai schiavi di una vita di lavoro cui non resta che bere birra.
Parlando infine di quel periodo, non si può però evitare di dar conto di un fenomeno musicale, in qualche maniera estraneo al rock esploso in Inghilterra e che ebbe immediatamente un grande successo mondiale. Sto parlando del reggae giamaicano, una musica che nei Caraibi aveva una lunga tradizione ma che a Londra trovò la spinta per imporsi a livello planetario, finendo per influenzare sia il rock – ad esempio nella proposta di gruppi come Police o UB40 o in album di artisti non reggae come per esempio ‘Black and blue’ dei Rolling Stones.
Se è vero che molti gruppi e musicisti europei o americani ne adottarono la ritmica ‘zoppicante’ è anche vero che furono i più autentici esponenti di questa musica ad avere successo in prima persona, musicisti come Peter Tosh (1944 – 1987) o Bob Marley (1945 – 1981), capofila di una nutrita schiera di artisti giamaicani che godevano per diversi anni di enorme successo.

—————————————–

Disco: Bob Marley – Exodus (1977)

Questo album è considerato uno dei vertici di tutta la musica reggae, non solo di Marley. Il musicista lo incise a Londra dove, entrato in contatto con la scena reggae inglese e col punk, comprese l’importanza del proprio ruolo sia come artista che come leader per la sua gente. Realizzò quindi un lavoro dove ritroviamo tutti gli aspetti della sua musica, della sua filosofia di vita e della sua religione. Canzoni d’amore, di rabbia e ribellione, di speranza e fede, di fratellanza universale e gioia. «Aprite i vostri occhi e guardatevi dentro/Siete soddisfatti della vita che state vivendo?/Noi sappiamo dove stiamo lasciando Babilonia, per tornare nella terra di nostro padre/Esodo, movimento del popolo di Jah».

—————————————–

Anni ’80: tanta vita dalle macerie del punk

Dalla ventata di novità del punk, fiorirono alcune realtà di assoluto rilievo artistico: esperienze che musicalmente poco avevano a che vedere col punk stesso, ma moltissimo con la volontà di rinnovare gli ormai usurati stilemi del rock anni ’70.
I Talking Heads, i primi Police, i Tears For Fears, i Jam, gli Style Council, i Joy Divison, i Cure, gli Dire Straits ecc. ecc. Sono la minima parte di gruppi e musicisti che in qualche modo e in maniere diverse, contribuirono a rinnovare il suono di quegli anni.

A vantare una storia che prese le mosse all’inizio degli anni ’80, vi furono gli irlandesi U2.  Quando nel 1981, pubblicarono il loro primo album ‘Boy’, il disco arrivò come un pugno in faccia, qualcosa di inaspettato e di diverso da tutto quando andava in quel periodo. Era rock vero, fatto da più dalle chitarre e dalla batteria che dagli strumenti elettronici che in quel momento dominavano e i testi parlavano di problemi reali, importanti di impegno e di una dichiarata, accesa, fede in Dio.

—————————————–

Disco: U2 – The Joshua tree (1987)

‘The Joshua tree’  è considerato uno dei picchi creativi della band di Dublino. Ma è stato anche un album di enorme successo (20 milioni di copie vendute), con brani divenuti pietre miliari nel percorso artistico del gruppo. Momenti che spiccano in un progetto musicale comunque coeso e compatto. Nel disco si esprime compiutamente tutta la forza sonora degli U2 ma anche, nei testi, tutta la loro potenza espressiva. Eppure non sono solo i valori tecnico-artistici in senso stretto a fare di questo lavoro una delle vette del gruppo, quanto lo straordinario impatto emotivo, quel ‘qualcosa’ che parla al cuore prima ancora che al cervello.

Ascolta dodici brani su radioscalo

Popular Music – Europa – Il rock degli anni ’70 (16. Parte seconda)

PrefazioneIndice

Progressive rock

Durante gli anni 70, il progressive rock (o prog) rappresentò l’evoluzione massima della composizione in ambito rock.

Osteggiato da chi preferiva immediatezza e aggressività, adorato da chi a rock chiedeva invece maggiore complessità e profondità, questo genere prevedeva brani anche di lunga durata (fino a venti, trenta minuti) e estremamente elaborati.

Per scriverli ed eseguirli, i musicisti di Genesis, Emerson Lake & Palmer, King Crimson, Yes, Van Der Graaf Generator, ecc. dovevano possedere solide basi teoriche compositive e un’abilità tecnica straordinaria.

In tali proposte risultava fortissima l’influenza della musica colta, una vicinanza tra i due mondi che a volte ha finito per concretizzarsi anche nella rievocazione in chiave rock di brani classici da parte di gruppi come Emerson Lake & Palmer, Nice, Renaissance, Jethro Tull, ecc.

Esistono almeno due Pink Floyd, o meglio, un solo gruppo dalle due facce.

Formatisi alla fine degli anni 60 sotto l’influenza del genio visionario del chitarrista Syd Barret (1946 – 2006), i Pink Floyd si segnalarono immediatamente come gruppo interessato alla più estrema sperimentazione musicale a e visiva (quest’ultima, ovviamente nei concerti arricchiti da fantascientifici – per l’epoca – impianti luce).

I loro primi album sono a buon diritto ascrivibili al filone psichedelico inglese, del quale sono considerati necessari punti di riferimento. Tuttavia nel 1973, la band cambiò decisamente direzione (ecco i “secondi” Pink Floyd) con l’album “The dark side of the moon”: perso Barrett, divenuto incapace di conciliare disturbi mentali e uso di droghe con la sua presenza nel gruppo, con questo album la band si indirizzò verso una musica più accessibile al grande pubblico, dando sfoggio di genio compositivo e di grande capacità di intuire cosa potesse piacere alla gente.

Ottenuto un immenso successo (il disco restò ininterrottamente in classifica per oltre trent’anni vendendo più di 50 milioni di copie) se pure accusati di tradimento da parte dei fans della prima ora, i Pink Floyd negli anni avrebbero centellinato le loro produzioni discografiche regalando tuttavia al pubblico un paio di capolavori assoluti (‘Wish you were here’, ‘The wall’) e diverse altre pagine di alto livello.

—————————————–

Disco: Pink Floyd – Atom Earth mother (1970)

Non il lavoro più noto dei Pink Floyd, non quello di maggior successo, ma questo album, per alcune caratteristiche, va segnalato. Magari, riscoperto. Stiamo parlando dei Floyd pre-“Dark side”, quindi lontani dal grande successo commerciale e ancora pesantemente influenzati dalla psichedelia. Ma sono Pink Floyd che stanno cercando di esplorare nuove strade.
Centro nodale dell’album è la splendida (in alcuni momenti, esaltante) suite di 25 minuti che titola l’album, nella quale il suono del gruppo si fonde con quello di un’orchestra sinfonica con una perfezione quasi mai raggiunta nei tanti altri esperimenti del genere. Tra gli altri pezzi di stile psichedelico si segnalano la dolce ballata If e i 13 lisergici minuti di Alan’s psychedelic breakfast.

—————————————–

Come abbiamo visto, all’inizio degli anni ’70, il rock non era più solo la musica aggressiva e spensierata delle origini: guardava con grande interesse alla musica classica, alla letteratura e all’arte.

Non stupisce quindi che alcuni dei suoi esponenti non fossero semplicemente ragazzi con un giubbotto di pelle e una chitarra a tracolla: David Bowie (David Jones, 1947 – 2016), ad esempio – e non era certo l’unico – prima di mettersi a fare musica aveva studiato cinema, arte, teatro e letteratura, e nella sua proposta artistica “globale” confluirono tutti questi interessi.

I suoi concerti dei primi anni ’70 erano autentiche performances d’arte moderna, tese ad amplificare l’aspetto “finzione” insito nell’esistenza stessa della rockstar. Nel corso di questi spettacoli si produceva infatti in un plateale trasformismo estetico amplificato dalla dichiarata bisessualità, incarnando il personaggio alieno di Ziggy Stardust. Fingere in maniera clamorosa, insomma, per evidenziare la finzione di quanti, sul palco, pretendono invece di essere “autentici”

Buona parte degli anni ’70 lo videro impegnato in questo tipo di ricerca (estetica, musicale e concettuale), poi, abbandonate le vesti di Ziggy per un look classico ed elegante (in clamoroso contrasto con le spille da balia, le folli acconciature e i jeans strappati del punk che stava sorgendo), si dedicò l’esplorazione della musica elettronica realizzando alcuni album di cerca, ma anche al cinema e al teatro.

I decenni successivi l’avrebbero sempre visto impegnato in un proprio percorso che, di volta in volta, ha ignorato le tendenze musicali temporanee o le ha destrutturate e ricostruite a proprio uso e consumo. Finendo per diventare uno dei personaggi fondamentali della storia della musica rock.

—————————————–

Disco: David Bowie – The rise and fall Ziggy Stardust and the Spiders from Mars (1972)

Questo disco parte da una maschera, quella di Ziggy Stardust, alieno “caduto sulla terra” in cui convivono il cabaret mitteleuropeo d’anteguerra e la fantascienza di Kubrick, il glam più volgare e le intuizioni più sottili. Dal punto di vista musicale, l’album offre ballate romantiche, rock’n’roll tiratissimi da suonare a tutto volume (come si raccomanda in copertina) e, appunto, glam: voci sguaiate, melodie struggenti, arrangiamenti al limite del pacchiano che non sanno rinunciare agli effettoni dell’orchestra. Un miscuglio che sarebbe insopportabile se dietro non ci fosse tantissima autoironia, ottime intuizioni e, alla fine, alcuni autentici capolavori entrati nella storia: Five years, Moonage daydream, Starman, Ziggy Stardust e Rock and roll suicide. Mica pochi per un disco solo.

—————————————–

Nel resto d’Europa

Cosa succedeva in quel periodo nel resto dell’Europa? Non molto va detto.

Certo ogni paese aveva la propria scena rock e pop, ma raramente di livello internazionale. Tra i pochi che hanno ottenuto qualche popolarità fuori dal proprio paese possiamo ricordare gli olandesi Focus e i francesi A.N.G.E. e Magma, (tutti progressive rock), gli svedesi ABBA e i tedeschi Scorpions (hard rock). Ma anche nel caso di un grande successo (360 milioni di dischi venduti dagli ABBA), niente di particolarmente originale.
In questo senso forse l’unico fenomeno continentale di rilievo di quegli anni fu quello della cosiddetta ‘musica cosmica’ fiorito in Germania dalla fine degli anni ’60.
In realtà sotto questa etichetta finirono esperienze musicali affalto diverse: la psichedelia dei Faust (“IV”), dei Can (“Tago mago”) e degli Ashra Tempel (“Schwingungen”), il misticismo laico/religioso dei Popol Vuh (i bellissimi “Hosianna mantra” e “Seligpreisung”), le meditazioni elettroniche di Klaus Schulze e dei suoi Tangerine Dream (‘Phaedra’), i deliri anarchici degli Amon Düül (‘Vive la Trance’), ecc. Fu in questo variegato panorama musicale, che per lo più aveva come denominatore comune l’uso degli strumenti elettronici e la ricerca di un linguaggio svincolato dai modelli anglosassoni, che avrebbero in qualche modo preso il via anche le sperimentazioni (meno “sognanti” ed effettistiche) di un gruppo che tra gli anni 70 e ’80, avrebbe conosciuto un notevole successo commerciale: i Kraftwerk.

1 Kraftwerk possono essere considerati i veri padri della moderna computer-music. Il loro contributo allo sviluppo della musica elettronica è infatti riscontrabile in molte delle produzioni techno ed electro di fine millennio (ne parleremo nel capitolo dedicato alla dance). La loro intuizione fu di usare, fin dall’inizio degli anni ’70 e con quel poco che la tecnologia metteva a disposizione, le macchine come strumento compositivo. «Autobahn” “Trans Europe Express” e “The man machine” i loro dischi più significativi, ad evidenziare un percorso che riguardò non solo la loro musica ma anche lo stralunato modo di porsi sul palco: distaccati ed inespressivi, molto più vicini al mondo delle macchine che non a quello degli esseri umani. Chi scrive assistette ad un concerto in cui i quattro, dopo due brani, si alzarono dalle loro poltrone in platea e salirono sul palco prendendo il posto di quelli che tutto il pubblico aveva preso per i musicisti ma che in realtà erano solo dei manichini…

Ascolta sei brani su radioscalo

Classifica musicale 2023

Come mia consuetudine dal 2006, pubblico la mia classifica musicale. Classifica da prendere un po’ con le “pinze” in quanto se la prima decade rispecchia la mia reale preferenza poi man mano che ci si allontana diventa bene o male una estensione più numerica che merito sonoro.

Anno estremamente produttivo (covid docet) questo 2023 ha messo alla prova il mio apparato uditivo come non mai. Grazie al tempo disponibile che per fortuna ora non manca, ho avuto modo di ascoltare quasi 130 dischi e di questi un centinaio con le dovute attenzioni. Questi dischi fanno parte di questa classifica annuale.

Al primo posto non poteva mancare una delle due uscite di Van Morrison targate 2023; “Moving on Skiffle”, un disco che ancora una volta (dopo il doppio disco del 2022) mette in luce la sua grande maestria.
A seguire un disco splendido di una “riunione” quasi improvvisata di Sissoko, Segal, Parisien, Peirani. Quattro musicisti di grande spessore che mettono insieme un universo sonoro che parte da melodie africane per passare in Armenia e scivolare in direzione della Transilvania attraverso la Turchia. Respiri intrecciati di fisarmonica e sax. Una mescolanza di melodie con echi jazz e di blues ancestrale.
L’attesa del disco di Peter Gabriel a distanza di 21anni dal suo ultimo album di inediti era enorme ma, per fortuna, non ha deluso anzi è riuscito a sfornare un quasi capolavoro.
Molto meno conosciuto dei nomi precedenti è Mark Erelli che ci regala un piccolo gioiellino confezionato a doc. Canzoni molto più di “facile ascolto” ma non per questo superficiali. Colpito due anni fa da seri problemi degenerativi alla vista, sembra infatti aver reagito alla malattia sfoderando energia e vivacità.
La cantautrice Jaimee Harris grazie alla sua bella voce e non solo, è una delle realtà più interessanti dell’attuale scena folk, tanto che paragoni come artisti del calibro di Mary Gauthier, Mary Chapin Carpenter o Patty Griffin non sono inutilmente sprecati. Album appassionato ed emozionante.
Molto apprezzato da critica e pubblico il quarto album dei Daughter, il più luminoso della loro carriera, dove i contrasti interiori continui, i pensieri impazziti e divergenti, e le emozioni oscure esternate riescono in ultimo a trovare uno sbocco, fino a intravedere una luce in fondo al tunnel e di conseguenza un po’ di pace e speranza nel futuro.
Amo i The National e mai avrei pensato che dopo alcuni capolavori pubblicati nel passato potessero ancora ripetersi e invece… ma, non bastasse dopo la prima uscita “First Two Pages of Frankenstein” a distanza di pochissimi mesi e a grandissima sorpresa ne pubblicano un secondo “Laugh Track” che è anche leggermente più bello. Grandi.
Le ultime due pubblicazioni di questo proficuo 2023 appartengono a William the Conqueror e Drayton Farley. Altri due buonissimi dischi. Il primo è un trio inglese che ha radici in Scozia, e le ottime sonorità si fanno sentire e il secondo è un disco con sonorità americane dove il country e il folk costruiscono canzoni piene di pathos.

L’intera classifica con tutti i nomi e le recensioni (alcune sono mie) le trovate QUI.

Popular Music – Europa – Il rock degli anni ’70 (15. Parte prima)

PrefazioneIndice

Il rock degli anni ’70

Tra gli anni ’60 e gli anni ’70, l’Inghilterra e Londra in particolare erano una fucina di creatività non solo in ambito musicale: le idee più innovative nel campo della moda, del design e dell’arte venivano da li.

A Londra, strade come Carnaby Street, King’s Road o Regent Street (e ovviamente i loro negozi, laboratori e atelier) erano inevitabile punto riferimento per chi volesse tenere d’occhio l’evolversi, a volte anche frenetico, dei costumi e delle tendenze. Si trattasse del lancio di una scandalosa gonna sopra il ginocchio (la “minigonna” di Mary Quant) o dell’ultima folle idea dei Pink Floyd.

Non stupisce quindi che in quel periodo anche il rock conoscesse evoluzioni continue e continue frammentazioni in sottogeneri, anche molto distanti loro. Così alcuni gruppi optarono per un suono duro e fortemente ritmi (hard rock), altri per uno sviluppo estremo della tecnica di composizione con brani elaborati e complessi (progressive rock), altri cercarono interessanti fusioni con l’universo dell’arte contemporanea (art rock), al si dedicarono essenzialmente all’aspetto visuale e giocosamente trasgressivo (glam rock), altri ancora si fecero pronubi del fertilissimo matrimonio tra rock e jazz, altri infine dedicarono a sperimentazioni estremamente interessanti in una terra di nessuno tra classica, jazz e rock psichedelico (la citata, fertilissima, «Scuola di Canterbury»). Infine va detto del recupero, i questi anni, del patrimonio musicale folkloristico da parte di band come Pentangle (ma i primi due bellissimi album sono ancora della fine degli anni ’60), Fairport Convention e Steeleye Span.

Hard rock ed heavy metal

Caratterizzato da una proposta agreressiva nelle sonorità e nelle ritmiche, l’hard rock (rock duro), ha avuto nei decenni esponenti un po’ in tutto il mondo. Solo negli anni ’70, dagli Stati Uniti arrivarono Iron Butterfly, Ted Nugent, Grand Funk Railroad, Steppenwolf, Blue Oyster Cult, Aerosmith, Van Halen, Alice Cooper, Z7 Top, Kiss e, tutto il filone del southern rock, dall’Australia gli AC/DC, dal Canada i Triumph, dalla Germania gli Scorpions, dall’Italia il Rovescio della Medaglia.

Molto significativi erano comunque i gruppi inglesi, forse quelli che godettero di maggior successo internazionale e la cui proposta risultava più stilisticamente varia. Tra i tantissimi, possiamo ricordare almeno Deep Purple (nelle loro diverse formazioni succedutesi nei decenni), Black Sabbath autori di un hard rock tetro e funereo precursore di tanto metal del decennio successivo, Led Zeppelin, con un personalissimo stile che fondeva blues, rock duro, psichedelica e reminiscenza folk, e Who cui si deve la prima, fondamentale, opera rock della storia: ‘Tommy’ del 1969.

Nati artisticamente in ambito blues, Jimmy Page, chitarra, Robert Plant, voce, John “Bonzo” Bonham, batteria, e John Paul Jones, basso e tastiere, i Led Zeppelin hanno rappresentato una delle realtà più interessanti ed influenti della storia del rock, godendo anche di un successo enorme (circa 300 milioni di dischi venduti). La loro storia (9 album ufficiali e molte raccolte) è finita con la scomparsa del batterista John Bonham avvenuta il 4 dicembre 1980 anche se gli altri tre sono tornati sul palco altre volte, come in occasione del Live Aid nel 1985. La musica del gruppo si richiamava, soprattutto agli inizi, alle basilari strutture del blues (la band fu spesso accusata di saccheggiare quel repertorio senza riconoscerne gli autori) ma presto accolse anche influenze folk e psichedeliche. E, alla fine, nonostante i Led Zeppelin siano universalmente riconosciuti tra i principali esponenti del rock “duro”, da molta parte della critica è stato loro rimproverato di non essere “sempre” duri come avrebbero potuto e dovuto essere. Page, Plant, Bonham e Jones invece avevano orizzonti musicali più ampi come è ben espresso dalla monumentale e leggendaria Stairway to heaven e per loro era una necessità ineludibile alternare la violenza di Immigrant song (il cui “attacco” è stato votato come il più devastante della storia del rock), alle atmosfere bucoliche di Black mountain side, lo sperimentalismo sonoro di Whole lotta love e le emozioni di Since I’ve been loving you, uno dei più intensi, struggenti ed emozionanti blues mai scritti o cantati.

—————————————–

Disco: Led Zeppelin – III (1970)

Dopo i trionfi dei due album precedenti, il terzo era tanto atteso che dovette uscire in tutta fretta con una copertina provvisoria. Appena messo sul piatto, molti pensarono che il solo attacco dell’iniziale Immigrant song valesse buona parte dei soldi spesi. Arrivati a Since I’ve been loving you quasi tutti erano convinti che sarebbe stato impossibile spenderli meglio, quei soldi.
L’universo musicale di questo album oscilla fra il devastante brano d’apertura e questo intensisimo blues, ma prevedeva anche puntate nel folk, chitarre acustiche e atmosfere bucoliche. Tanto eclettismo non era apprezzato da chi da Page e Plant voleva solo bordate sonore, e iniziò a considerare finita la vicenda del Dirigibile. Invece di lì a poco il gruppo avrebbe tirato fuori il brano che gli avrebbe consegnato l’immortalità: Stairway to heaven.

Ascolta dieci brani su radioscalo

Popular Music (14. Europa – Il rock degli anni ’60)

Prefazione Indice

Europa – Il rock degli anni ’60

Torniamo indietro: alla fine degli anni ’50.
In quel periodo, il rock’n’roll sbarcò in Inghilterra dove già  erano arrivati da oltre Oceano il blues e il jazz degli States e dove aveva grande seguito lo skiffle, un genere ritmico di derivazione jazzistica.
Di fatto fu dall’unione di questi generi musicali che prese origine (e peculiarità) il rock inglese, in qualche maniera abbastanza differente da quello americano dello stesso periodo.
I primi ad avere successo con questa formula furono gli Shadows del cantante Cliff Richard, ma il primo grande fenomeno musicale (ma anche sociale) britannico fu rappresentato all’inizio degli anni ’60, dai Beatles. Chi però trovava Paul, George, Ringo e John troppo ‘puliti’ ed ‘educati’ (non certo gli adulti che comunque giudicavano indecenti e sovversivi quei ‘capelloni urlanti’), optava per gli storici antagonisti, i Rolling Stones: ‘brutti, sporchi e cattivi’, come si diceva all’epoca, e molto più duri (musicalmente). Con album epocali come ‘Their satanic majesties request’ (1967), ‘Sticky fingers’ (1971) o ‘Exile on Main Street’ (1972) gli Stones si imposero come uno dei gruppi più importanti e influenti del mondo, statura artistica che tuttora mantengono, mezzo secolo dopo la loro esplosione!
Beatles e Rolling Stones erano i principali esponenti di un genere musicale (ma anche di una moda e di u fenomeno di costume che presto invase tutta l’Europa e successivamente l’America con la cosiddetta British Invasion) chiamata beat, che prevedeva comunque ancora brani di grande semplicità musicale e testi decisamente disimpegnati.
Era un panorama musicale popolato da decine e decine di band (tra cui i Kinks, i primi Who, e poi Hollies, Zombie, Small Faces…) che influenzò tutta la musica europea.

—————————————–

Ipse Dixit: «Caro direttore, ho paura che presto ci capiti un’altra sciagura nazionale: sento dire che presto verranno anche in Italia i Beatles, quattro giovanotti disertori della vanga che col loro jazz fanno impazzire mezza Europa. Quando la finiremo a calpestare le aule del bel canto italiano?» Ugolino Pieracei – Lettera alla Domenica del Corriere del 1 marzo 1964.

«Egregio Direttore, non crede che Beatles che godono di una libertà fanatica, corrompano i costumi dei nostri giovani? Quei capelli lunghi, quegli urli, quella volgarità non producono nulla di buono.» Ettore Massa – Lettera a Gente dell’8 settembre 1965.

«Egregio Dottor Rusconi come, dunque, questi impudenti urlatori d fiera sarebbero degli artisti? Ma, in nome di Dio, cos’è l’arte? I Beatles sono dei forsennati che alla maniera delle baccanti inscenano spettacoli rumorosi e quasi orgiastici tra una musica assordante e movimenti incomposti.
L’esaltazione di autentici mostri che tuttavia vanno per la maggiore deve finire.»
Colonn. Giuseppe Bellacosa – Lettera a Gente del 3 novembre 1965.

—————————————–

Per molti storia di popular music, il gruppo di Paul McCartney (voce, basso), John Lennon e George Harrison (voce, chitarre) e Ringo Starr (batteria) è da considerare il più importante fenomeno musicale e di costume di tutti i tempi.
Anche se a molti ascoltatori di oggi tale asserzione può sembrare esagerata e contestabile, essa è probabilmente giustificata. Dunque va spiegata.
L’esplosione dei Beatles avvenne nei primi anni ’60, quando il rock aveva già avuto un idolo amato e imitato come Elvis Presley. Ma, in Europa, Elvis non aveva avuto lo stesso impatto che negli USA, i Beatles, invece, finirono molto presto per influenzare non solo tutta una generazione di musicisti, ma anche il modo di pettinarsi, di vestirsi e di atteggiarsi di milioni di giovani del Vecchio Continente: era la prima volta che nel Vecchio Continente un cantante o un gruppo aveva una tale rilevanza sociale.
Ma i quattro di Liverpool sono stati fondamentali soprattutto dal punto di vista musicale. Perché se è vero che nei primi album i Beatles si muovono sulla falsariga di generi già collaudati (il rock’n’roll, prima, il beat, dopo), con l’andare del tempo essi riuscirono a maturare uno stile musicale personalissimo e ad inserire nelle canzoni talmente tante invenzioni e innovazioni tecniche e musicali da influenzare in maniera determinante il modo di comporre, di arrangiare e di registrare in ambito rock, aiutati in maniera determinante in questo percorso dal geniale produttore George Martin.

—————————————–

Disco: The Beatles – Revolver (1966)

Ecco l’album in cui i Beatles si tuffarono a pesce nella ricerca e nello sperimentalismo sonoro oltre a toccare tutti gli argomenti, dalle tasse al buddismo, esplorando tutti i generi musicali: dalla canzonetta infantile (Yellow submarine) al rhythm’n’blues (Got to set you into my life), dal pop psichedelico (She said she said) alla musica orientale (Love you to), al blues (Taxman). Poi ci sono i capolavori intramontabili. Come Eleanor Rigby, scritta da Paul e arrangiata da George Martin con l’uso geniale di un doppio quartetto d’archi: il suo splendido testo, nella parte conclusiva, con la morte della protagonista e il prete che si pulisce le mani dalla terra allontanandosi dalla sepoltura, non mancò di sconvolgere il pubblico. O come Tomorrow never knows che è la canzone più sperimentale mai incisa dai Beatles fino a quel momento. Il testo ispirato al tibetano ‘Libro dei morti’ è cantato da John con al voce filtrata da un amplificatore Leslie per organo, ottenendo un’atmosfera quasi mistica. Scritto da Lennon sotto l’influsso dell’LSD (il ‘Libro dei morti’ è testo di riferimento della cultura lisergica) parla dell’acido e del suo universo. In questo senso, è stato uno dei brani più socialmente influenti del gruppo.

—————————————–

Naturalmente, negli anni ’60 in Gran Bretagna non c’erano solo gruppi beat. Accanto a questa musica di fatto più ‘commerciale’ e di facile ascolto, una fiorentissima scena di derivazione blues vedeva la presenza di personaggi come Eric Clapton (1945) e suoi Cream, Jimmy page, che avrebbe formato i Led Zeppelin, John Maya, Eric Burdon e gli Animals.
A metà del decennio, poi, assieme a quella americana prendeva corpo una scena psichedelica inglese, alla quale si collegarono gruppi come i Pink Floyd di Syd Barrett, i Soft Machine e tutta la cosiddetta ‘Scuola di Canterbury’, una interessantissima scena fiorita nell’omonima cittadina. Oltre, come visto agli stessi Beatles.
E poi, quello che viene considerato il più grande chitarrista della storia del rock: Jimi Hendrix (1942 – 1970), nato negli Stati Uniti, a Seattle, ma anche in Inghilterra trovò la propria consacrazione.
Hendrix rappresentò, nella seconda metà degli anni ’60, il confluire di una miriade di influenze, musicali ma non solo: nel suo stile erano mescolati psichedelia bianca e blues nero, rock e rhythm’n’blues. Artista dalla presenza carismatica sul palco, con la sua tecnica chitarristica straordinariamente innovativa e grazie ad un suo rivoluzionario di effetti, echi e feedback, riusciva a trarre dal suo strumento suoni mai sentiti prima. Indubbiamente, Hendrix è stato il chitarrista con maggiore influenza su generazioni e generazioni di musicisti: il suo mito, alimentato dalla morte prematura (destino comune a tanti dall’epoca) ha comunque solidissime basi nei quattro album realizzati in vita (‘Are you experienced’, 1967, ‘Axix: bold as love’, 1967, ‘Elettric ladyland’, 1968 e ‘Band of gypsy’, 1970), ben più che nelle decine di dischi realizzati con vecchio materiale a suo tempo scartato, pubblicato dopo la sua morte.

—————————————–

Disco: Jimi Hendrix – Elettric ladyland (1968)

L’ultimo album in studio di Jimi Hendrix rappresenta forse anche il vertice della sua ricerca sonora. Il lavoro raccoglie infatti un’enorme quantità di idee e di intuizioni che avrebbero fatto scuola per decenni. La concretezza e la carnalità del blues incontra l’evanescenza e le dilatazioni della psichedelica in un matrimonio sulla carta (ma non sul vinile) impossibile: così, per una terrena Voodoo Chile, abbiamo un’eterea Have you ever been (to Eletric ladyland) e accanto al messaggio universale della dilaniata All along the watchtower, l’intimità personale di Gypsy eyes, dedicata alla madre. Un doppio album pieno di rimpianto per quanto Hendrix avrebbe potuto dare alla musica se altri (falsi) paradisi non l’avessero rapito.

Ascolta dodici brani su radioscalo