Popular Music

Prefazione

Popular Music è un titolo assai azzardato per un tema di così grande spessore ma, senza incantarvi, in realtà è un’escursione molto semplice e soprattutto personale, in quanto darà visione e quindi informazione solo su storie, musicisti, dischi e quant’altro che hanno avuto importanza per il sottoscritto. 

Quindi, qualsiasi appassionato troverà facilmente lacune, artisti trascurati e approfondimenti mancati, d’altra parte, una trattazione del genere non può e non vuole essere esaustiva: chi fosse interessato a un «qualcosa» in particolare (quella di un musicista, quella di un genere o uno stile, quella di un’epoca) su di essa troverà sicuramente il modo di approfondire. Internet, le librerie e le biblioteche sono li per quello.

Perché Popular Music? Perché è musica popolare.
Distinguendo la musica tutta in due macro filoni, musica leggera o popolare, comprendendo in questo brutto termine rock, jazz, blues, folk, etc. e musica colta, tutto il resto, i post qui pubblicati daranno visibilità al primo filone.

Per prendere informazioni «tecniche» su nomi, date etc. mi sono avvalso di materiale cartaceo e digitale, lasciando poi ampio spazio alla mia personale conoscenza, valutazione e critica.

Lo scopo unico di questa pubblicazione è dare a chi è interessato alla cultura musicale, un piccolo supporto, non  solo nozionistico.

Indice:
1)   L’Africa e il Blues
2)   Dal blues rurale al blues urbano
3)   Rhythm’n’Blues e Soul
4)   Le anime del Soul
5)   Il Funk e il Rap
6)   Il Jazz dalle origini al Dixieland
7)   Il Jazz degli anni ’20 e ’30
8)   Il Jazz degli anni ’40 e ’50
9)   Il Jazz degli anni ’50 e ’60
10) Il Jazz degli anni ’70 e l’Europa
11) USA – Il Rock degli anni ’50 e ’60
12) USA – Il Rock degli anni ’70: crisi e rivoluzioni
13) USA – Il Rock: punk, grunge e nuovo millennio
14) Europa – Il rock degli anni ’60
15) Europa – Il rock degli anni ’70 (Parte prima)
16) Europa – Il rock degli anni ’70 (Parte seconda)
17) Europa – Il rock fine anni ’70 e ’80
18) Il rock: Africa e anni ’90
19) Italia: Il prog e fine anni ’70
20) Cantautorato 

Dischi segnalati:
1)   John Lee Hooker – Face to face (2003)
2)   Eric Clapton – Me & Mr. Johnson (2004)
3)   Ray Charles – Ray O.S. (2004)
4)   Aa. Vv. – The Blues Brothers O. S. (1980)
5)   Michael Jackson – Thriller (1982)
6)   Stevie Wonder – Songs in the key of Life (1976)
7)   Sky & the Family Stone – There’s a riot goin’ on (1971)
8)   Rui DMC – Raising hell (1986)
9)   Original Dixieland Jass Band – Livery stable blues (1917)
10) Louis Armstrong & Earl Hines (1989)
11) The best of Gerry Mulligan Quartet with Chet Baker (1991)
12) Due Ellington – Live at Fargo (1940)
13) Charlie Parker – The complete Dial session (1999)
14) Joni Mitchell – Mingus (1979)
15) John Coltrane – A love supreme (1964)
16) Miles Davis – In a silent way (1969)
17) Paolo Fresu Quintet – The platinum collection (2008)
18) Doors – L.A. woman (1971)
19) Bob Dylan – Blowin’ in the Wind (1963)
20) Bruce Springsteen – Born to Sun (1975)
21) The Beatles – Revolver (1966)
22) Jimi Hendrix – Electric Ladyland (1968)
23) Led Zeppelin – III (1970)
24) Genesis – Nursery cryme (1971)
25) Pink Floyd – Atom Earth mother (1970)
26) David Bowie – Ziggy Stardust (1972)
27) Bob Marley – Exodus (1977)
28) U2 – The Joshua tree (1987)
29) PFM – Per un amico (1971)
30) Skiantos – Monotono (1978)
31) Fabrizio De Andrè – La guerra di Piero (1964)
32) Francesco Guccini (1972)
33) Lucio Battisti – Pensieri e parole (1971)
34) Vasco Rossi – Vita spericolata (1983)
35) Ligabue – Ligabue (1990)
36) Zucchero – Blue’s (1987)
37) Pino Daniele – Nero a metà (1980) – Vai mo’ (1981)

Protagonisti segnalati:
1)   Robert Johnson
2)   Ray Charles
3)   Due Ellington
4)   Charlie Parker
5)   John Coltrane
6)   Miles Davis
7)   Bob Dylan
8)   Bruce Springsteen
9)   Frank Zappa
10) The Beatles
11) Jimi Hendrix
12) Led Zeppelin
13) Pink Floyd
14) David Bowie
15) Bob Dylan
16) Bruce Springsteen
17) Frank Zappa
18) The Beatles
29) Jimi Hendrix
20) Led Zeppelin
21) Pink Floyd
22) David Bowie
23) U2
24) Fabrizio De Andrè
25) Francesco Guccini
26) Lucio Battisti
27) Vasco Rossi
23) Ligabue
24) Zucchero
25) Lucio Dalla

Ipse Dixit: vari autori

Bibliografia:
Enciclopedia Rock (Arcana Editrice)
Guida alla musica pop di Rolf-Ulrich Kaiser (Mondadori)

Blues, Jazz, Rock, Pop – E. Assante – G. Castaldo (Einaudi)
Il Popolo del Blues – Leroi Jones (Einaudi)
La musica giovane (Lucio Mazzi)

La terra promessa – G. Castaldo (Feltrinelli)
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1) L’Africa e il Blues

L’Africa è la madre del suono, della musica.
Il blues è legato alla musica nera afroamericana come la trama a l’ordito. 

I neri africani sradicati dalla loro terra vengono deportati in America, vengono privati dei diritti fondamentali e schiavizzati nei lavori sui campi di cotone, proprietà dei bianchi.
In questo contesto compaiono i canti di lavoro che pur derivando da un’usanza tradizionale dell’Africa Occidentale in realtà è la prima espressione musicale del nero afroamericano. Canti di lavoro (work songs) che prendono presto forma di canto religioso assumendo nome in spiritual.
Conseguentemente alla conversione degli schiavi alla religione Cristiana con l’evangelizzazione da parte di missionari  europei, questi canti di lavoro (spiritual) prendono il nome di Gospel (vangelo), canzoni spesso corali, cantate prevalentemente nelle chiese.

Il Blues (che significa «triste») si può far risalire al 1912, quando W. C. Handy pubblicò il brano Memphis blues. Questa forma musicale è caratterizzata da una struttura sonora ben determinata: in dodici battute, ma a volte anche otto o sedici.
Il Blues esprime generalmente sentimenti personali di dolore e tristezza, o comunque situazioni di disagio. 

Il Blues è detto «la musica del diavolo», le teorie a tal proposito sono diverse.
La religione dei paesi originari degli schiavi neri non era certamente quella cristiana dei bianchi: per questi ultimi, era quindi religione «diabolica», e altrettanto diabolica era la musica di chi la professava (o qualsiasi altra espressione) . Inoltre i testi dei blues erano molto espliciti con usuali riferimenti al sesso, cosa che rendeva questa musica ancor più disdicevole.
Il colpo di grazia giunse poi quando iniziò a circolare la leggenda secondo cui il maggior cantante blues degli anni ’30 (Robert Johnson) aveva dichiarato di aver venduto l’anima al demonio per poter diventare un grande bluesman.

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Ipse Dixit«La gente continua a domandarmi dove nacque il blues. Tutto quello che posso dire è che, quando io ero ragazzino, nelle campagne, cantavamo sempre. In realtà non cantavamo, gridavamo, però inventavamo le nostre canzoni raccontando le cose che ci stavano succedendo in quel momento. Credo che fu allora che nacque il blues.» (Eddie Son House, bluesman)

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Protagonista simbolo del blues è il musicista Robert Johnson (1911 – 1937), un personaggio da sempre avvolto nel mistero e nella leggenda. Esponente principale del Delta blues sviluppatosi sulla foce del Mississippi, possedeva uno stile unico fondato su un fraseggio energico e quasi percussivo. Tutta la sua produzione comprende appena 29 brani registrati a San Antonio nel 1936 e a Dallas nel 1937: lui preferiva cantare e suonare in giro piuttosto che chiudersi in sala di registrazione. In più, una morte prematura (Johnson, inguaribile donnaiolo, morì a 26 anni forse avvelenato da un marito geloso) gli impedì di cambiare idea. Nonostante questo, sono centinaia i musicisti che hanno dichiarato di essere stati influenzati dal suo genio: Jimi Hendrix affermò di essersi ispirato a Johnson per sviluppare il proprio stile, i Cream ripresero Cross road blues e From four until late, i Rolling Stones Love in vain, i Blues Brothers e molti altri Sweet home Chicago e i Led Zeppelin Traveling Riverside blues. Eric Clapton gli dedicò un intero album di cui scriverò più avanti.

Il blues iniziò ad uscire dalle piantagioni alla fine dell’Ottocento, ma fu negli anni ’20 del Novecento che questa musica conobbe il primo vero sviluppo.
I primi interpreti che iniziarono ad avere una certa fama anche presso i bianchi furono Bessie Smith (1894 – 1937), forse la più grande cantante nera di tutti i tempi, e poi W. C. Handy e Ma Rainey. Fu in questo periodo che  vennero incisi i primi dischi; il primo fu Booster blues di Blind Lemon Jefferson nel 1926. All’inizio il bluesman si accompagna solo con una chitarra e con un banjo, spesso alternando il canto con interventi di armonica a bocca; il primo vero maestro di armonica fu John Lee «Sonny Boy» Williamson (1914 – 1948) che rivoluzionò il modo di suonarla, aspirando le note invece di soffiarle.

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Ipse Dixit«Sembrava che la sua chitarra parlasse, che ripetesse le parole assieme a lui, una cosa che nessun altro al mondo sapeva fare. Questo suono colpiva molto le donne, in un modo che non riuscirò mai a capire. Una volta a saint Louis stavamo suonando ‘Come on in my kitchen’, lui suonava molto lentamente e con passione, e quando finimmo notai che nessuno diceva niente o applaudiva. Poi capii che stavamo piangendo tutti… donne e uomini, tutti.» (Johnny Shines, bluesman amico di Robert Johnson)

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2) Dal blues rurale al blues urbano

Tra gli anni ’20 e ’30, gli Stati Uniti vissero un periodo durissimo dal punto di vista economico, con una crisi che, come sempre, colpì più duramente le comunità più deboli. Anche in questi casi, questo tipo di difficoltà provocò migrazioni, dalle zone del sud le persone si trasferirono in massa nelle grandi e ricche città del nord, portando con sé la propria musica.
Fu allora che in città come Chicago, Memphis, Detroit e New York nacquero quartieri di soli neri che spesso erano ghetti malfamati dominati dalla criminalità, ma anche l’unica possibilità per tanti  musicisti di colore di trovare locali dove suonare e guadagnare da vivere.
Tuttavia per suonare in questi locali (e farsi sentire) non erano più sufficienti la vecchia chitarra acustica, l’armonica o le rudimentali percussioni degli inizi; negli anni ’40 fecero così necessariamente la loro comparsa i microfoni per la voce, la batteria e le chitarre elettriche con i loro amplificatori. E attorno al cantante si riuniva spesso un vero e proprio gruppo musicale.
Anche le tematiche trattate nelle canzoni cominciano a parlare di nuovi problemi ‘cittadini’, dando vita così al blues urbano ormai lontano dal blues rurale delle origini per tematiche, anche se non per forma.
Su questa nuova scena si muovevano personaggi oggi entrati di diritto nella storia di questa musica come Albert King (1923 – 1992), Howlin’ Wolf (1910 – 1976), Sonny Boy Williamson II (1899 – 1965) e John Lee Hooker (1917 – 2001).

Negli anni ’50, il blues, nato con strumenti acustici nelle campagne, era ormai diventato una musica urbana, elettrica e molto più aggressiva. Il blues nato per cantare le angosce di una vita difficile, con il boom economico la gente che pagava l’ingresso nei locali, lo faceva per divertirsi e ballare: di storie tristi e tragedie della solitudine o del lavoro non voleva più sentir… cantare. Così, il blues si alleggerì nei propri contenuti dimenticando forse la sua anima originaria.
Quello che suonavano Willie Dixon (1915 – 1992), B. B.King (1925 – 2015), Chuck Berry (1926 – 2017) o Muddy Waters (1913 – 1983), era già diventato qualcos’altro, qualcosa che si chiamava rhythm’n’blues.

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Disco: John Lee Hooker – Face to face (2003)

E’ questo un disco postumo, uscito due anni dopo la scomparsa di John Lee Hooker. In questi casi, spesso il sospetto dell’operazione puramente commerciale è forte, tuttavia, questo album, compilato dalla figlia del grande bluesman scavando tra l’enorme archivio del padre, può davvero essere considerato un po’ il testamento musicale del musicista. Qui Hooker, come ha fatto tantissime volte, incontra giovani colleghi per una serie di duetti registrati negli anni ’90: ci sono, tra gli altri, Van Morrison, Johnny Winter, George Thorogood ed Elvin Bishop. Tutti, maestro e allievi, impegnati a ripassare la grande lezione del blues.

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Non è un caso che anche gruppi rock come Rolling StonesDeep Purple o Led Zeppelin abbiano sempre dichiarato il loro debito nei confronti di questa musica e che questa musica sia stat realmente all’inizio del loro percorso artistico (un gruppo apparentemente lontanissimo da questo mondo musicale come i Pink Floyd deve lo stesso proprio nome a due bluesmen americani: Pink Anderson e Floyd Council).
Tutti musicisti inglesi quelli citati, perché il blues nell’Inghilterra degli anni ’60 ebbe una scena vivacissima, dominata principalmente da due grandi chitarristi: John Mayall (1933) ed Eric Clapton (1945).

Il blues negli anni ’60 conobbe una vera e propria esplosione e anche in questo caso esistono spiegazioni sociologiche: in quel periodo una grande rivoluzione culturale negli Stati Uniti portò un deciso avvicinamento dei bianchi (in articolare dei giovani) all’universo nero, con l’accettazione della sua cultura e della sua musica. Anche se va sottolineato che i blues non parlavano mai delle lotte politiche e sociali dei giovani degli anni ’60, non parlavano di emancipazione razziale, di guerra nel Vietnam o diritti civili, ma solo e sempre di vicende personali, di cuori spezzati, gioco d’azzardo, delinquenti e prostitute.

Altri musicisti bianchi interessati al blues da ricordare oltre ai sopracitati Maya e Clapton, sono: Charlie Musselwhite (1944), Paul Butterfield (1942 – 1987), Janis Joplin (1943 – 1970), Johnny Winter (1944), Michael Bloomfield (1943 – 1981) e Jimi Hendrix (1942 – 1970).

Il boom degli anni ’60 non ebbe però seguito nei decenni successivi. L’età, i problemi di alcol e droga, le difficoltà di vario genere finirono per assomigliare le fila delle «leggende» degli anni ’50 e ’60. Resistettero nomi come Buddy Guy (1936) o James Cotton (1935 – 2017). Sarebbe ingeneroso, comunque, non citare nomi la cui proposta, pur energicamente innervata dal rock, al blues si richiama in maniera dichiarata: Joe Bonamassa (1977), Ben Harper (1969), Steve Ray Vaughan (1954 – 1990) e Jeff Healey (1966 – 2008). 

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Disco: Eric Clapton – Me & Mr. Johnson (2004)

Eric Clapton ha iniziato la propria carriera come bluesman e, nonostante nei decenni se ne sia spesso discostato, l’amore per questa musica è sempre rimasto. Ne è la riprova questo album del 2004 nel quale il chitarrista reinterpreta alcuni brani di Robert Johnson in un onesto e sentito omaggio alla leggenda. Blues asciutto, senza fronzoli com’era agli inizi e come deve essere, certo più musicalmente ricco di come fosse in origine, ma in grado di conservare, delle origini, la vera anima.

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Ricapitolando. Nell’Ottocento, dall’unione di spiritual (religiosi), work song (profane) ritmiche e soluzioni musicali africane nasce il blues; poi alla fine del secolo, con l’abolizione della schiavitù, il blues esce dalle piantagioni e unendosi anche a musiche importate dagli europei dà origine al jazz.
Negli anni ’40 del Novecento, il blues si urbanizza e si elettrifica dando origine al Rhythm’n’Blues e negli anni ’50, dal matrimonio tra Rhythm’n’Blues (profano) e gospel (religioso) nasce il soul.
Nello stesso tempo, dal matrimonio tra Rhythm’n’Blues e country nascerà il rock’n’roll.
Negli anni ’70, poi dal soul si distaccherà un’ala più dura: il funk e, alla fine del decennio, dal funk e dal soul prenderà origine la disco music, nelle sue varie sfumature stilistiche.
Negli anni ’80, sempre dal funk deriverà la scena hip hop e rap, successivamente assisteremo a una sorta di revival del soul e del Rhythm’n’Blues sotto la sigla R’n’B.

3) Rhythm’n’Blues e Soul

L’elettrificazione del blues ha portato, negli anni ’40, alla nascita del Rhythm’n’Blues, termine coniato nel 1947 dal produttore della casa discografica Atlantic Jerry Wexler.
Musica molto più ritmica e aggressiva del blues e che del blues stava gradatamente anche abbandonando la tipica struttura musicale in 12 battute. Veniva eseguita da gruppi musicali anche assai nutriti che facevano pure largo uso di fiati. Insomma: qualcosa di molto distante dalla musica del vecchio blues singer che accompagnava il proprio dolente canto con la sola chitarra e con l’armonica.
La storia del Rhythm’n’Blues sarebbe sfociata molto presto in quella della soul music, letteralmente «musica dell’anima» (un bel salto dalla… «musica del diavolo»!), quando alcuni musicisti, come ad esempio il grande Ray Charles (1930 – 2004), ebbero l’intuizione di fondere l’intensità emotiva e la drammaticità dei canti religiosi (in articolare il gospel) con il trascinante impeto del Rhythm’n’Blues. 

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Ipse Dixit«Per la prima volta non si sapeva con certezza su che sponda ci si trovava. Queste erano canzoni d’amore o religiose? La seconda persona singolare era tu o Tu? Era un’ambivalenza voluta che sarebbe continuata. ‘Si trattò semplicemente di un’evoluzione – afferma Zenas Sears, il più importante dj Rhythm’n’Blues di Atlanta, bianco – ero presente quando Ray Charles registrò il suo primo grande successo ‘misto’, ma non mi pare che questo fu mai considerato una svolta’. Ok, Jerry Wexler lo considerò una svolta, ma tutti gli altri no.» (Peter Guranlick, «Soul music»)

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Protagonista di questo periodo fu Ray Charles. Cieco dall’età di sette anni a causa di un glaucoma, Ray Charles seppe coniugare in maniera unica e originalissima sonorità diverse: dal Rhythm’n’Blues al country, dal soul al jazz e al pop.
Aveva 21 anni quando entrò in classifica per la prima volta con Baby, let me hold your hand e quello fu il primo di un’infinita serie di hit come Georgia on my mind, I can’t stop living you, Unchain my heart, Hit the road Jack…
Charles, detto «The Genius», stabilì le regole e i punti di riferimento del soul: libertà interpretativa, improvvisazione e, soprattutto, immenso rispetto per la musica dei padri: il blues e il gospel.
 
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Disco: Ray Charles – Ray O.S. (2004)

La colonna sonora del film dedicato al grande The Genius è, di fatto, una raccolta certo non esaustiva (quale ‘best’ di una ventina di brani potrebbe mai esserlo?), ma in grado di dare del musicista un’immagine abbastanza vicina alla realtà. Compilata dal regista del film Taylor Hackford, comprende 17 brani soprattutto degli anni ’50 e ’60, alcuni celeberrimi, altri pur interessanti ma meno noti e alcune eccellenti versioni live. Un buon approccio, per quanto limitato, all0univarsi sonoro di questo immenso musicista.

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4) Le anime del Soul

Furono molti ad abbracciare il soul, diventandone autentiche leggende: pionieri come Sam Cooke (1931 – 1964), e poi Solomon Burke (1940 – 2010), Wilson Pickett (1941 – 2006), Otis Redding (1941 – 1967) o Aretha Franklin (1942 – 2018). Accanto a costoro va citato colui che da sempre è soprannominato «Godfather of soul» (‘padrino del soul’): James Brown (1933 – 2006) figura assolutamente centrale nella vicenda della black music. Fu la sua accentuata caratteristica ritmica ad ispirare il genere musicale che prenderà il nome di funk.

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Ipse Dixit«Il giorno dopo l’omicidio di Martin Luther King, James Brown doveva suonare a Boston, ma quando seppe la notizia cancellò il concerto. La situazione era tesissima e nelle strade erano già scoppiati incidenti e saccheggi. Il sindaco chiamò Brown e gli chiese aiuto invitandolo a suonare dal vivo e a trasmettere il suo concerto in tv. Brown accettò e per miracolo la gente rientrò nelle case, accese la tv e segui, per sei ore consecutive, un concerto di inaudita forza. E quando il concerto fini anche la tensione era sfumata. Il giorno dopo Brown fu chiamato dal sindaco di Washington con lo stesso obbiettivo: ‘Salva la nostra città’ gli disse il sindaco e Brown rispose. Andò nelle strade a parlare con la gente e la sera offrì di nuovo il suo concerto in televisione. ‘Questo è il più grande paese del mondo – disse Brown al pubblico – se lo distruggiamo siamo pazzi. Abbiamo fatto molte cose che è assurdo buttare via. Dovete combattere con dignità’. Il giorno dopo Washington era più tranquilla». (Albet Goldman, ‘Sound bites’)

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Negli anni ’60 il soul era ormai, assieme al jazz, la musica dei neri americani. In essa conviveva una doppia anima: da una parte la voglia di ballare e divertirsi, dall’altra la necessità di sottolineare e veicolare con la musica le lotte per i diritti civili della minoranza nera, in un processo identico a quello che, negli stessi anni stava vivendo la giovane musica bianca di ‘protesta’.

A suggellare questo periodo ci fu un film di immenso successo: ‘The Blues Brothers’ che negli anni ’80 avrebbe riportato in auge quel suono e quell’atmosfera. 

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Disco: Aa. Vv. – The Blues Brothers O. S. (1980)

La colonna sonora del film-culto di John Landis è una piccola antologia del soul e ha contribuito alla ricoperta di questo genere musicale negli anni ’80. Accanto a brani come Sweet home Chicago, Jailhouse rock o Everybody needs somebody to love interpretati dalla Blues Brother Band (gruppo formato dai protagonisti del film, Belushi e Aykroyd, già prima del film), ne troviamo altri proposti da autentiche stelle della black music che hanno preso parte alla pellicola: il gospel The old landmark da James Brown, Think da Aretha Franklin o Shake your taifeather da Ray Charles.

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Negli anni ’70, personaggi come Diana Ross (1944), Smokey Robinson (1940), i TemptationsMarvin Gaye (1939 – 1984) e Stevie Wonder (1950), vissero proprio il loro decennio migliore. Accanto a loro, un gruppo di fratelli destinati ad una carriera strepitosa, i Jackson Five. Tra i cinque fratelli Jackson, il più giovane era Michael (1958 – 2009) avrebbe dato il via ad una carriera da solista durante la quale avrebbe venduto milioni di dischi. 

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DiscoMichael Jackson – Thriller (1982)

Prodotto da un genio come Quincy Jones fondendo pop, dance, rock e black music, l’album (che in origine doveva intitolarsi ‘Starlight’) rappresenta il suono nero degli anni ’80. Jackson firma metà dei brani e ci mette una vocalità straripante, il resto lo fanno il suo look inimitabile e i video costruiti sulle canzoni (quello della title track è un cortometraggio capolavoro di John Landis). Sette brani su nove sono divenuti singoli di enorme successo, piccoli gioielli consegnati alla storia: Thriller, Beat it, Billie Jean o The girl is mine.
Fare i conti con i capolavori è poi difficilissimo, dopo ‘Thriller’ Michael Jackson avrebbe sfornato ancora un paio di album abbastanza buoni per poi perdersi dietro i proprio fantasmi personali, questo fu insomma l’inizio della fine, ma nel 1982 nessuno poteva immaginarlo. 

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Protagonista di punta della Motown, forse il più celebre e amato ancora oggi, è Steveland Twiki Hardway Judkins, in arte Stevie Wonder. Cantante, pianista, batterista ed eccellente armonicista, a otto anni suonava già diversi strumenti, a dodici era una stella, all’inizio degli anni ’70, poco più che ventenne, aveva già inciso una decina di album.
Nel 1972 ebbe i primi successi mondiali grazie all’album ‘Talking book’ e a brani come ‘Superstition e You are the sunshine of my Life’ in esso contenuti, bissati l’anno dopo da Living for the city e Don’ you worry.
La grandezza di Wonder sta nel fatto di essere stato, innanzi tutto, un innovatore. Riesci infatti, ad introdurre nel soul passaggi melodici e sonorità inedite che avrebbero influenzato tutte le generazioni successive di artisti neri (e non solo). Inoltre, la sua proposta coniugava facilità di ascolto e indubbia genialità compositiva (oltre che esecutiva: come detto, Wonder suona perfettamente una miriade di strumenti).

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Disco: Stevie Wonder – Songs in the key of Life (1976)

Un grande pezzo ad album è più o meno nella norma, due o tre sono già un’eccezione, ma questo doppio album è tutto composto da brani incredibili.
Wonder canta, suona le tastiere, la materia e regala brividi all’armonica, arrangia e produce. Miscela con sapienza infinita funk e soul, tentazioni jazz e pop da alta classe, testi di denuncia e dichiarazione d’amore. Non è un caso che molte delle canzoni di questo disco siano spesso ascoltate anche oggi, e altre siano diventate la base di rielaborazioni hip hop o ripescate 40 anni dopo dal nu-soul: segno di una modernità che ha ignorato il passare del tempo e delle mode.

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5) Il Funk e il Rap

Funk
Le caratteristiche del funk sono ben definite: linea di basso ossessiva, ritmo martellante, chitarra secca e graffiante. Si possono individuare in brani di James Brown come Papa’s got a brand new bau (1965) o come la celeberrima Get up sex machine (1970).

Ma la musica funk non era solo trascinante e ‘fisica’, i testi spesso erano estremamente politicizzati come per esempio: Heron (1949) e molti altri brani dello stesso James Brown.
Il funk era la musica della popolazione di colore orgogliosa della propria identità, pronta a combattere peer difenderla. Era la voce del ‘potere nero’. Ma anche nel funk, dal punto di vista musicale, vanno fatte delle distinzioni. Una cosa era la proposta accattivante degli Earth, Wind & Fire (non a caso protagonisti poi della disco music), altra quella fortemente influenzata dal rock psichedelico di George Clinton o di Sly & the Family Stone.

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Disco: Sky & the Family Stone – There’s a riot goin’ on (1971)

Magari ancora loro non lo sanno, ma quello che Sly Stone e famiglia mandano nei negozi è un lavoro che avrebbe fornito un sacco di idee a tutti immusonisti del periodo (e dopo). Opaco e asfissiante nel suono quanto i loro dischi precedenti erano solari, avveniristico negli arrangiamenti (c’è perfino una drum machine in Family affair, quasi otto minuti a testa per Thank you for talkin’ to me Africa e Africa talks to Thank you), adrenalinico nelle ritmiche, chiude definitivamente con gli anni ’60 e i suoi sogni. Il brusco risveglio degli anni ’70 era alle porte e questo disco ce lo mostra già confondendo le frustrazioni di una generazione con quelle di un musicista ormai schiavo di eccessi di ogni tipo e in vista della propria fine artistica.

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Va detto tra l’altro che la lezione del funk finì per influenzare anche il jazz: dischi come ‘Head hunters’ (1973) di Herbie Hancock o ‘On the corner’ (1972) di Miles Davis portano più meno dichiaratamente quell’impronta sonora.
Anche Jimi Hendrix, Prince e i bianchi Red Hot Chili Pepper, hanno riconosciuto un’influenza decisiva, come figlia del funk.
La vicenda del funk si sarebbe andata spegnendo lentamente con il finire degli anni ’70: come gli artisti raggiungevano uno status (anche economico) agiato, la loro musica perdeva di mordente e scadeva in una dance elettrizzante, ma priva di reali contenuti.

Rap
Contrariamente a quasi tutti i generi musicali, si può dire che il rap (letteralmente ‘chiaccherata’) ha un padre, una madre e perfino un certificato di nascita.
Il ‘certificato’ è rappresentato dal primo singolo rap della storia, Rapper’s delight della Sugarhill Gang (1979): la sua base sonora era fornita da Good times degli Chic, e su di essa ‘recitava’ il testo la voce di Henry ‘Big Bank Hank’ Jackson. Lui era stato scelto da Sylvia Robinson (ecco la ‘mamma’ del rap), cantante soul e proprietaria del negozio Sugai Hill Records.
Il rap era uno degli elementi della cultura hip hop, assieme alla breakdance e all’arte dei graffiti.
E’ il padre? Il padre si chiama Kool Herk (1955) un dj. E’ stato lui a portare in città questo nuovo stile che esisteva già dagli anni ‘60 in Giamaica.

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Ipse Dixit«Kool Herk comprava dischi per utilizzare solo delle frasi o dei suoni, mai il prodotto intero. Un riff di chitarra o un giro di basso non dovevano durare più di 15 secondi. Metteva su lo stesso frammento musicale moltissime volte tagliando le altre parti del brano quando inseriva la sua voce. Poco dopo altri iniziarono a copiare lo stile di Herk aggiungendo ritocchi personali. Ad esempio, uno che si chiamava Theodor inventò la tecnica dello scratching che consisteva nel mandare avanti e indietro velocemente il disco con le dita.» (Dick Ebdige, ‘Cut’n’mix’)

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Disco: Rui DMC – Raising hell (1986)

Questo terzo lavoro dei Rui DMC fu il primo a sdoganare l’hip hop presso le grandi masse e la crew fu la prima ad avere un disco di platino, la prima ad avere la copertina della prestigiosa rivista musicale Rolling Stone, la prima ad essere trasmessa da MTV. Tutto merito di quest’album dove, per primi, i tre decidono di sostituire le usuali basi di balck music con un rock più accessibile al pubblico di bianchi e i testi sono cruda cronaca della sopravvivenza nel ghetto, pur tuttavia rinunciando alle sovrastrutture politico-ideologiche tipiche, ad esempio, dello stile dei Pubblici Enemy.

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Ipse Dixit«Il rap è la CNN dei neri americani. Il nostro dovere è informare su quello che realmente succede. Le parole sono l’unico mezzo che abbiamo per fare arrivare al mondo la nostra voce. I vecchi oggi sembrano sempre più lontani dai giovani che crescono e vivono con il rap. Sono due sistemi che si scontrano e la frattura è solo un’inevitabile conseguenza. Esistono vari modi di fare rap e nessuno è migliore dell’altro. Ogni rapper ha qualcosa da raccontare. Può variare il linguaggio, non la sostanza.» (Chuck D., rapper)

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6) Il Jazz dalle origini al Dixieland

Rintracciare le origini musicali di un determinato genere non è mai semplice. Molte volte impossibile. Nel caso del jazz (originariamente il termine esatto era ‘jass’) la nascita viene collocato (temporaneamente) nella seconda metà dell’Ottocento e (musicalmente) nella fusione tra la musica degli schiavi neri (work, songs, spiritual e, successivamente, blues), quella importata dall’Europa dai bianchi (in particolare la musica per banda) e quella da essa direttamente derivata: il ragtime (una miscela pianistica che associava la ritmica africana alla musica colta europea)

New Orleans verso la fine del XIX secolo era l’unica metropoli al mondo con un autentico crogiolo di razze e culture: vi convivevano francesi, ispanici, afroamericani e nativi americani. La cultura dominante era ovviamente quella bianca, ma questa cultura fondeva anche con quella della popolazione di colore visto che li, nonostante la segregazione razziale ancora presente, era permesso un contatto tra le etnie molto maggiore che in qualsiasi altro luogo degli USA. A New Orleans, tra l’altro, c’era un quartiere ‘a luce rosse’ (si direbbe oggi), dove la prostituzione era legale e dove proliferavano centinaia di locali e bordelli. E in questi locali e bordelli si suonava tutte le sere, e si suonava jazz.
Tuttavia, il jazz non risuonava solo nei locali malfamati anzi, si suonava in un altra tipica ‘situazione musicale’ della città: le cerimonie funerarie. 

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Ipse Dixit: «Andando verso il cimitero suonavano di solito pezzi come ‘Nearer my God to thee’ o ‘Free as a Bird to the Mountain’. Noi suonavamo in un tempo in 4/4 molto lento; infatti si camminava molto lentamente dietro la bara. Dopo che il defunto era stato seppellito, ci allontanavamo a passo di maia al suono del solo tamburello finché arrivavano a uno o due isolati di distanza. Allora cominciavamo a suonare ragtime. Potevamo suonare ‘Didn’t he ramale?’, il buon vecchio ‘When the Saints go marchin’ in’, oppure trasformare in ragtime qualcuno di quegli spirituals. Un movimento in 2/4, sapete, un passo vivace. C’era poi un secondo scaglione che era un po’ l’equivalente di una parata del King Rex nel corteo dei Mari Gras. La polizia non riusciva a tenerlo indietro, riempiva la strada, i marciapiedi, camminava davanti alla banda. C’erano folle enormi al seguito dei funerali. Questa gente seguiva il funerale fino al cimitero soltanto per poter ascoltare il ragtime al ritorno. Non c’erano mai risse o cose del genere; ma potevi vedere la gente che ballava in mezzo alla strada» (Bunk Johnson, trombettista)

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I primi musicisti jazz erano neri che utilizzavano soprattutto gli strumenti a fiato e i tamburi abbandonati dagli eserciti della Guerra di Secessione. Si sa poco o niente di questi pionieri, ma che fu il cornettista Buddy Bolden (1877 – 1931) a formare, nel 1895, la prima importante jazz band è sicuro. Il nome del gruppo era Original Dixieland Jass Band, il brano che fu inciso e diffuso oltre i confini era ‘Livery stable blues’, la data il 26 febbraio 1917.

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Disco: Original Dixieland Jass Band – Livery stable blues (1917)

Pubblicato dalla Victor, il brano è un classico dixieland dall’intonazione volutamente comica (in esso troviamo anche la simulazione dei versi degli animali fatti con vari strumenti) ed ebbe un successo strepitoso: vendette un milione e mezzo di copie solo grazie al passaparola (la Victor non credeva nell’operazione e non la pubblicizzò). Anche se i neri facevano da tempo quel tipo di musica, fu questo successo ad avere un effetto decisivo sui musicisti del tempo. Proprio sull’organico della Original Dixieland Jass Band (cornetta, clarinetto, trombone, pianoforte e batteria) si modellarono molti altri gruppi che, ad esempio, da quel momento eliminarono il violino, allora assai presente in questo tipo di band.

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Ricapitolando: Il jass, ragtime, New Orleans, Original Dixieland Jass Band e il 1917, sono cinque termini, nella semplificazione massima, da ricordare come elementi della nascita del jazz.

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7) Il Jazz degli anni ’20 e ’30

Negli anni ’20, quello che era successo a New Orleans solo pochi anni prima, ora stava succedendo in un’altra città, al nord: Chicago. Tanti locali, tanta musica, tanti musicisti.
Il trombettista Louis Armstrong (1901 – 1971) si era fatto le ossa a New Orleans prima di arrivare a Chicago così come il cornettista Joe ‘King’ Oliver (1885 – 1938). Ma in quello stesso periodo in città ogni sera era possibile ascoltare anche i pianisti Jerry  Roll Morton (1890 – 1941) ed Earl ‘Fatha’ Hines (1905 – 1983), i clarinettisti Sidney Bechet (1890 – 1959) e Albert Nicholas (1900 – 1973), o il trombettista Big Beiderbeck (1903 – 1931), ‘alter-ego’ bianco di Armstrong.
Tutti oggi considerati padri del jazz.

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Disco: Louis Armstrong & Earl Hines (1989)

Questo album della Columbia raccoglie brani tra il 1927 il 1928.  Momenti come St. James InfirmaryBasin Street blues o West End blues, documentano la piena maturità di Louis Armstrong che comunque per decine d’anni avrebbe continuato a frequentare non solo questo jazz ‘delle origini’ cui resterà sempre affezionato, ma anche il mondo del pop ottenendo soprattutto negli anni ’70 grande successo con canzoni ‘leggere’. Tuttavia, qui, assistito splendidamente da Hines, porta la propria tromba sulla terra di confine tra il primo jazz e lo swing che stava per arrivare.

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La musica di questi artisti era inevitabilmente il jazz ‘delle origini’ che si suonava a New Orleans, tuttavia qualcosa stava accadendo: i gruppi di musicisti si ampliavano come organico fino a diventare autentiche orchestre di una dozzina di componenti dette ‘big band’, con legni, ottoni e sezione ritmica. Di pari passo, la musica si evolveva verso una forma più ballabile: lo swing.

Fu New York la capitale del jazz negli anni ’30.
Contemporaneamente a Fletcher Henderson (1897 – 1952), arrivato in città con la sua big band nel 1923, George Gershwin (1898 – 1937) musicista di estrazione ‘colta’, tentava una fusione tra jazz e musica classica mentre, seguendo proprio la strada indicata da Henderson, cominciavano a mettersi in luce arrangiatori e direttori, ognuno con la sua grande orchestra.
Come tanti direttori di big band, Due Ellington aveva avuto una rigida educazione musicale. Arrivato a New York nel 1922, impiegò alcuni anni a maturare un proprio stile personale: negli anni ’30 era già, semplicemente, il più grande. 

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Disco: Due Ellington – Live at Fargo (1940)

Sono tantissimi, nella sconfinata discografia di Ellington, i dischi dal vivo. Evidentemente era sul palco che la grande orchestra del Duca dava il meglio di se stessa. Ne abbiamo una dimostrazione in questo album che, pure registrato con una rudimentale apparecchiatura portatile (siamo nel 1940!), riesce a restituirci intatta l’atmosfera che la big band riusciva a creare. E’ da notare come il tappeto sonoro creato dai musicisti costituisce un perfetto sottofondo su cui si muovevano eccellenti solisti come il sassofonista Ben Webster o il trombettista Rex Stewart. Ma quello che l’ascoltatore deve cogliere è lo splendido ricamo degli strumenti concepito dal grande arrangiatore e direttore. 

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Altre big band da segnalare sono quelle di: Benny Goodman (1909 – 1986), William Allen ‘Count’ Basie (1904 – 1984), Tommy Dorsey (1905 – 1956), Gene Krupa (1910 – 2004) e Artie Shaw (1910 – 2004). Va ricordata un’orchestra di enorme successo: quella di Glenn Miller (1904 – 1944), fondata nel 1938. 

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Ipse Dixit: «Tutto quello che vogliono fare è dell’esibizionismo, e ogni vecchio trucco è buono. Così tirano fuori tutti quegli accordi strampalati che non significano niente, e in principio la gente prova della curiosità soltanto perché si tratta di una novità, ma poi si stanca perché non è musica veramente buona: non c’è nessuna melodia che si possa ricordare e nessun ritmo regolare su cui si possa ballare. E così questi musicisti tornano ad essere di nuovo poveri e non c’è lavoro per nessuno, e questo è quanto vi ha combinato la malizia moderna». (Louis Armstrong, trombettista)

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8) Il Jazz degli anni ’40 e ’50

Il Be bop. Se negli anni ’30 la scena era assai vivace, negli anni ’40 conobbe difficoltà di ogni tipo.
Dal ’42 al ’44, il sindacato dei musicisti proclamò un lungo sciopero per questioni di diritti d’autore che di fatto bloccò la pubblicazione di nuovi lavori, contemporaneamente la guerra mandava molti musicisti al fronte piuttosto che sul palco. Infine  una situazione economica già molto difficile, mise nuove tasse sulle sale da ballo.
L’insieme di questi eventi, portarono a sperimentare nuove forme musicali più ‘agili’ e più innovative di quelle un po’ imbalsamante proposte dalle vecchie grandi formazioni.

Nel 1946, un gruppo tra i cui componenti c’erano alcuni futuri monumenti della storia del jazz come Dizzy Gillespie (1917 – 1993) alla tromba. Charlie Parker (1920 – 1955) al sax e Max Roach (1924 – 2007) alla batteria, registrò alcuni brani totalmente ‘nuovi’: Shaw ‘nuff, Salt peanuts. Hot house…
Era nato il Be bop.
Ma non piacque per niente. Gran parte del pubblico era abituato al dixieland o allo swing vellutato delle orchestre: questa invece era musica molto più dura e difficile.
Nonostante la perplessità del pubblico, artisti come il chitarrista Barney Kessel (1923 – 2004), il pianista Thelonius Monk (1917 – 1982), il trombettista Fans Navarro (1923 – 1950), i sassofonisti Sonny Rollins (1930) e Dexter Gordon (1923 – 1990) e moltissimi altri erano assolutamente convinti della loro musica: volevano riportare il jazz alle origini, dopo che lo swing aveva fatto diventare questo genere una musica da ballo e tutto eccessivamente ‘bianca’.

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Ipse Dixit: «Appena fummo entrati, quei tizi afferrarono i loro strumenti e si misero a suonare quella loro roba folle. Uno si interrompeva improvvisamente, un altro incominciava a suonare senza una ragione al mondo. Noi non avremmo mai potuto dire quando un assolo avrebbe dovuto cominciare o terminare. Poi tutti quanti smisero di punto in bianco di suonare e se ne andarono dal palco. Ci spaventarono». Così il batterista della big band di Woody Herman, Dave Touch, raccontò all’epoca un’esibizione del quintetto di Dizzy Gillespie all’Onyx di New York. (Marshall Stearns, ‘The story of jazz’)

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Protagonista di questo periodo, ‘traghettatore’ tra il be bop (anni ’40) e il cool (anni ’50) fu Charlie Parker. Nato a Kansas City il 29 Agosto del 1920, anche se quando morì, nel 1975, i medici che avevano fatto l’autopsia dissero che era più probabile avesse 53 anziché 35.
A tredici anni, suonava il sassofono baritono, un anno dopo passò al contralto. A quindici (già sposato con una ragazza di diciannove!) la musica era già un fatto di sopravvivenza: suonava ininterrottamente dalle nove di sera alla cinque del mattino per 1,25 dollari. La sua era una vita difficile, martoriata dagli stupefacenti, era sempre sporco e stracciato, ma suonava come non si era mai sentito prima, anche se spesso non possedeva nemmeno uno strumento suo.
Nonostante la sua musica non piacesse a tutti, il suo sax divenne la voce più espressiva del jazz dell’epoca, anche se la vita per lui continuava ad essere sempre molto dura: nel 1947, devastato da droga, alcol ed eccessi di tutti i tipi, fu rinchiuso per sei mesi in manicomio. Quando ne uscì la situazione non era migliorata di molto.

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Disco: Charlie Parker – The complete Dial session (1999)

In questi quattro cd sono state pubblicate le registrazioni in studio effettuate da Parker e Los Angeles tra il ’46 e il ’47: di lì a poco sarebbe stato ricoverato in manicomio e molto del suo disagio traspare da questa musica. Considerandolo del tutto inaffidabile, la casa discografica gli aveva imposto in studio uno psichiatra… Immaginatevi l’atmosfera: ‘Bird’ (come era soprannominato) tremava e sudava e il medico gli dava pasticche, ma in qualche maniera il disco venne fuori. Con perle assolute come Lover man, The gypsy, Max making way, Ornitologi, A night in Tunisia, Embraceable you. Con lui, Dizzy Gillespie, Miles Davis e altri immensi compagni di viaggio. Anche qui, come sempre, dramma e ispirazione procedono di pari passo creando il ritratto di un genio fragile e malato.

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Il bop non spazzò via tutte le grandi orchestre, le maggiori, come ad esempio quella di Duke Ellington, sopravvissero.
Alcune cambiarono il suono, come ad esempio, quella di Woody Herman (1913 -1987) che dal grande successo con lo swing, sposò il bop.
In ogni caso, il bel bop era stata una rivoluzione, un punto di rottura con lo swing e, allo stesso tempo, l’origine di altre esperienze musicali.

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Disco: The best of Gerry Mulligan Quartet with Chet Baker (1991)

Nel 1952, Gerry Mulligan formò con Chet Baker un quartetto da cui era escluso il pianoforte, fino a quel momento ritenuto indispensabile in questo tipo di formazione. La nuova formula, che prevedeva due solisti intrecciare continuamente le proprie linee melodiche, ebbe un successo incredibile. Questo doscop documenta registrazioni tra il 1952 e il 1957 e presenta due grandi artisti che ebbero l’intuizione di sposare il suono greve eppure pieno di pathos del sax baritono (di Mulligan) alla tromba liricissima di Baker, certo in debito verso Miles Davis, ma anche capace di intuizioni che solo una vita troppo disordinata avrebbe fatto tacere troppo presto.

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9) Il Jazz degli anni ’50 e ’60

Se il cool aveva preso piede soprattutto in California, a New York il be bop si evolse nell’hard bop, una forma più ‘distaccata’ e impassibile. Certo non rilassata come il cool, ma nemmeno frenetica come il be bop.
Questo nuovo stile è caratterizzato dal punto di vista ritmico, non a caso alcuni dei gruppi più interessanti del periodo sono guidati da batteristi (Art Blackey, Max Roach, Elvis Jones, Philly Joe Jones e altri) dei quali il jazz studiò nuove strade.

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Disco: Joni Mitchell – Mingus (1979)

In un colpo solo ci si occupa di un grandissimo del jazz come Charles Mingus e una cantautrice, Joni Mitchell, che nei tardi anni ’70 sarebbe stata protagonista di un entusiasmante incontro tra jazz e canzone d’autore. Per questo disco, la cantante accettò l’invito dello stesso Mingus ad interpretare alcune sue composizioni scritte appositamente. Il risultato è esaltante, anche grazie all’apporto di grandissimi musicisti come Herbie Hancock (tastiere), Wayne Shorter (sax, Don Alias (percussioni), Peter Erkine (batteria) e Jaco Pastorius (basso). Mingus però non vide mai realizzato il disco: morì poche settimane prima dell’inizio delle registrazioni. Dal tour con il quale la Mitchell portò il lavoro in concerto venne tratto un doppio album live epocale intitolato ‘Shadows and light’.

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Nel 1959, il sassofonista Ornette Coleman (1930 – 2015) pubblicò l’album ‘Shape of jazz to come’, un autentico pugno in faccia agli appassionati di jazz. In esso, la musica era diventata, semplicemente, free, libera; non aveva più regole, gli strumenti non rispettavano né tempi né tonalità, per molti non era neanche musica.
Era free jazz.
In effetti, essa liberava totalmente i musicisti dalle strutture armoniche, melodiche e ritmiche tradizionali. L’improvvisazione era totale e i jazzisti potevano inventare i loro percorsi assieme (ognuno seguendo la propria idea musicale) o singolarmente.
Era, insomma, una ribellione verso ogni schema formale precostituito che andava di pari passo con la ribellione che scendeva nelle piazze contro la guerra e per la conquista dei diritti civili da parte dei neri.
In effetti, musicista come il trombettista Don Cherry (1936 – 1995), il pianista Cecil Taylor (1929 – 2018), i sassofonisti Anthony Braxton (1945) e Albert Ayler (1936 – 1970) o il gruppo degli Art Ensemble of Chicago poggiavano la loro proposta artistica su solide basi ‘ideologiche’ prima ancora che musicali.

Se Ornette Coleman aveva aperto la strada del free jazz, John Coltrane (1926 – 1967) indicava una direzione leggermente diversa.
Anche il suo era un jazz molto libero, ma non aveva abbandonato del tutto i vincoli dell’armonia: il suo era un sax che spesso gridava, ma la sua musica era quasi sempre ordinata e accessibile. Era nuova, ma non sovversiva.
Quella di ‘Trane’ fu una vicenda artistica brevissima. La sua attività cominciò a 29 anni e si concluse con la sua scomparsa ad appena 40, solamente undici anni, ma fondamentali per la storia del jazz.
Il suo approccio al sassofono era diverso e nuovo: più istintivo e più arrabbiato. Inevitabilmente, divise critica e pubblico in una disputa senza fine. Dopo altre esperienze discografiche, nel 1964 Coltrane realizzò il suo capolavoro, ‘A love supreme’. Il disco ebbe un successo di vendite degno di un album rock, venne osannato dalla critica e adorato da pubblico e musicisti non solo jazz. 

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Disco: John Coltrane – A love supreme (1964)

Un vecchio detto recita che se nel jazz devi cominciare da qualche parte, non puoi far altro che partire da qui. In effetti, stiamo parlando di un lavoro che rappresenta la vetta artistica di uno dei maggiori jazzisti della storia. E’ un disco fortemente spirituale, influenzato in maniera determinante dal misticismo religioso che pervadeva Coltrane, strettamente legato ad un suon momento di rinascita umana ed artistica dopo anni di dipendenza da alcol ed eroina. Si tratta di un’opera straordinaria in cui il sax tenore grida, si contorce e alla fine si libera, nel finale, raggiungendo apici di indicibile dolcezza, cercando di mostrare a tutti cosa voglia dire essere toccati da un ‘amore supremo’ dopo una vita travagliata.

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Il trombettista Miles Davis (1926 – 1991) è stato un personaggio fondamentale nella storia del jazz che egli ha visto (e creato) da protagonista per quasi mezzo secolo.
Pur non esente dai comuni problemi di tossicodipendenza, a differenza di tanti grandi colleghi ebbe una carriera lunghissima continuamente mossa da una curiosità che lo ha portato ad esplorare (spesso prima di tutti gli altri) i più diversi territori del jazz e non solo.
Nel 1948, in anticipo sui tempi, con il suo primo gruppo, alle prese col cool. Messo fuori gioco per alcuni anni dall’eroina, nella seconda parte degli anni ’50 realizzò album storici come ‘Millestones’ e soprattutto ‘Kind of blue’, Negli anni ’60 esplorò poi l’hard bop, cominciando la grande rivoluzione che lo vide protagonista alla fine del decennio: l’incontro del jazz con la strumentazione elettrica e quindi con il rock. Proprio a seguito di questa intuizione, con due dischi storici come ‘in a silente way’ e ‘Bitches brew’.
Questa ‘nuova musica’ che venne chiamata jazzrock (o rockjazz) non venne accettata dai puristi, ma milioni di ascoltatori e migliaia di musicisti impazzirono per questi nuovi suoni.

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Disco: Miles Davis – In a silent way (1969) 

Ascoltare questo disco è facile. La musica scorre fluida e accattivante. Nonostante vi suonino alcuni tra i maggiori musicisti della storia (da Wayne Shorter a Chick Corea, da Herbie Hancock a John McLaughlin, da Joe Zawinul a Dave Holland) non vi sono assolo, e anche la tromba di Davis suona poche note, non ci regala alcun virtuosismo ma un’intensità e un’espressività che è propria solo dei grandi. ‘In a silent way’ è fatto di pochissime note, ma ciò che dà profondità ed emozione sono proprio i silenzi, le attese tra una nota e l’altra: la magia di questo lavoro che portò per la prima volta gli strumenti elettrici nel jazz, sta tutta nelle note… non suonate. Nessuno urla, qui Williams carezza i piatti con le bacchette, Mclaughlin, Corea e Hancock scivolano sulle loro tastiere e bisogna ascoltare con attenzione per cogliere i loro arpeggi appena accennati, Shorter sembra solo ‘respirare’, non soffiare, nel suo sax. E Davis, uno che ha urlato spesso, prima e dopo, qui sceglie di esprimersi sottovoce. E quello che ne risulta è magia ed emozione.

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10) Il Jazz degli anni ’70 e l’Europa

Nei due dischi di Miles Davis ‘In a silent way’ e ‘ Bitches brew’ facevano la loro comparsa alcuni musicisti che avrebbero scritto splendide pagine negli anni successivi, tra gli altri: Herbie Hancock (1940), Joe Zawinul (1932 – 2007) e Chick Corea (1941), il chitarrista John McLaughlin (1942) e il sassofonista Wayne Shorter (1933).
Da loro nacquero alcuni gruppi che avrebbero segnato profondamente questo genere musicale: la Mahavishnu Orchestra di McLaughlin, i Weather Report di Zawinul e Shorter o i Return to forever di Corea. Da tutti questi (e molti altri) sarebbe arrivato materiale assolutamente fondamentale per il prosieguo della storia del jazzrock, definito successivamente fusion.

Finora è stato trattato il jazz americano, tuttavia questo genere ha avuto un largo seguito di pubblico e musicisti anche in Europa.
Grande interesse è sempre stata la scena francofona rappresentata dal chitarrista Django Reinhartd, dai violinisti francesi Stephane Grappelli, Jean Luc Ponty e Didier Lockwood, dall’armonicista belga Jean Baptiste e dal pianista francese Michel Petrucciani (1962 – 1999)
Il panorama britannico ha dato il meglio di sé praticando territori di ricerca al confine con i rock come nella cosiddetta ‘Scuola di Canterbury’. Musicisti come i sassofonisti Lol Coxhill ed Elton Dean, i chitarristi Allan Holdsworth, Derek Bailey o il citato John McLaughlin, il tastierista Keith Tippett e gruppi come i Soft Machine o i Just Us (di Elton Dean) hanno sempre proposto musica estremamente interessante.

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Ipse Dixit: «E’ nefando e ingiurioso per la tradizione e per la stirpe riporre in soffitta violini e mandolini per dare fiato a sassofoni e percuotere timpani secondo barbare melodie che vivono soltanto per le effemeridi della moda. E’ stupido, ridicolo e antifascista andare in sollucchero per le danze ombellicali di una mulatta o accorrere come babbei ad ogni americanata che ci venga da oltreoceano.» (Carlo Ravasio, Il Popolo d’Italia – 30 marzo 1929)

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Nel nostro paese arrivò durante la Prima Guerra mondiale con l’esercito americano ed ebbe subito una nutrita schiera di appassionati, sia tra il pubblico che tra i musicisti. Tuttavia conobbe un periodo di stasi durante il regime fascista che, in ‘difesa’ della musica italiana, lo bollò come ‘barbara musica negroide’, espellendola dalle trasmissioni radiofoniche dell’EIAR (l’ente precursore della RAI).
Dopo il periodo di oscuramento, il jazz riprese vigore dagli anni ’50 in poi, con gruppi come il sestetto di Gianni basso e Oscar Valdambrini o grandi solisti come Dino Piana (trombone), Enrico Intra e Renato Sellani (pianoforte), Franco Cerri (chitarra) e molti altri.
Una citazione a parte merita Giorgio Gaslini (1929 – 2014), uno dei primi ad ottenere fama internazionale, nel cui lavoro si fondono di volta in volta il rock italiano dei primi anni anni ’70, l’impegno politico, l’instancabile didattica (fu il primo a portare il jazz nei conservatori), l’interesse per la musica contemporanea o per la musica etnica (da leggere il uso ‘Musica totale’ del 1975).
Dai primi anni ’70, ricco è poi stato il panorama jazzrock: gruppi come Perigeo (straordinaria band in cui militavano grandi jazzisti come il pianista Franco D’Andrea, il sassofonista Claudio Fasoli, il batterista Bruno Biriaco, il contrabbassista Bruno Tommaso e il chitarrista Tony Sidney, gli Area (del fantastico cantante e ricercatore Demetrio Stratos) con una proposta in grado di toccare i generi più disparati, dal jazz, alla musica sperimentale, alla canzone di impegno politico, gli Arti & Mestieri, gli Agorà e molti altri.
Infine corre l’obbligo di ricordare operazioni estremamente interessanti realizzate a Napoli con la fusione tra jazz e altri ambiti musicali, per incontrare di volta in volta la canzone d’autore (Pino Daniele), il rock (Napoli Centrale, Osanna) o la musica etnica mediterranea (Tony Esposito, Tullio de Piscopo).
Senza dimenticare, oltre ai nomi citati, grandi maestri come i sassofonisti Mario Schiano (1933 -2008) e Massimo Urbani (1957 – 1993).il batterista Gilberto Gil Cuppini (1924 – 1996) o il direttore d’orchestra e polistrumentista Gorni Kramer (1913 – 1995). Altri nomi assolutamente degni di menzione: i trombettisti Enrico Rava (1939), Paolo Fresu (1961) e Fabrizio Bosso (1973), dei pianisti Franco D’Andrea (1941), Enrico Pieranunzi (1949), Danilo Rea (1957), Rita Marcotulli (1959) e Stefano Bollani (1972), dei sassofonisti Gianluigi Trovesi (1944) e Francesco Cafiso (1989)e  del batterista Roberto Gatto (1958)

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Disco: Paolo Fresu Quintet – The platinum collection (2008)

Tre cd celebrano un gruppo storico del nostro jazz. Ogni volume è dedicato a un tema: il primo alle ballads, il secondo al blues, il terzo al song. Pur con maggiore attenzione alle incisioni effettuate per la prestigiosa etichetta Blue Note, i brani percorrono l’intera carriera del trombettista. Ma se Fresu giganteggia, merito va dato ai suoi compagni di viaggio nel costruire un’architettura sonora tanto curata nei dettagli quanto emozionante all’ascolto. Grande Jazz anche quando Fresu e i suoi compagni di viaggio si accostano con infinita sapienza, anche a brani ‘facili’ della canzone d’autore italiana o dell’universo sudamericano.

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11) USA – Il Rock degli anni ’50 e ’60

Il rock nasce alla metà degli anni ’50 nel sud degli Stati Uniti quando del rhythm’n’blues nero si appropriano i musicisti bianchi, in qualche maniera ‘addomesticandolo’ e rendendolo più ‘accettabile’ (al pubblico di bianchi, ovviamente).
Siccome era inaccettabile che i bianchi ‘facessero musica nera’ come il rhythm’n’blues, semplicemente il dj Alan Free battezzo ‘rock’n’roll’ quello che alla fine non era altro che rhythm’n’blues… suonato da bianchi.
In ogni caso, il rock’n’roll fu la prima musica ‘per i giovani’ (bianchi e neri) e… fece scandalo. Innanzi tutto, per le vecchie generazioni non era concepibile che la stessa musica piacesse a bianchi e a neri, e che essi – bianchi e neri – andassero agli stessi concerti assieme. E poi il rock’n’roll, in quanto giovane (e quindi contrapposto al mondo degli adulti che amavano cantanti tradizionali come Frank Sinatra o Dean Martin che ‘sussurravano’ nel microfono invece di ‘urlare’ e per questo erano detti crooners, sussuratori) era ribelle e sovversivo e i suoi eroi erano considerati (dagli adulti) oltraggiosi e inaccettabili perché completamente diversi da questi cantanti tradizionali, sia negli atteggiamenti che nel repertorio. Elvis Presley (1935 – 1977), ad esempio, agitava il bacino mentre cantava (e per questo era detto Elvis ‘the pelvis’), e rappresentava una figura nodale in quel panorama. Elvis era bello, fascinoso aitante, sensuale e fu con lui che questa nuova musica esplose. Perché lui era ‘un bianco che cantava come un nero’.
Ma nonostante in alcuni stati USA il rock’n’roll venisse vietato e, a volte, i teatri che ne ospitavano i concerti fossero addirittura dati alle fiamme, il fenomeno divenne inarrestabile: la ribellione giovanile avrebbe avuto da quel momento illuso principale modo di espressione in quella musica che sarebbe andata di pari passo con l’evolversi del costume e della società.

L’importanza sociale di questa rivoluzione musicale
Fino a quel momento, infatti, i giovani semplicemente… non esistevano. La gioventù era una scomoda fase da abbreviare il più possibile, schiacciata tra la fanciullezza e l’età adulta. Quando questa musica, che non piaceva ai bambini e che non veniva accettata dagli adulti, ‘individuò’ per la prima volta una fascia di età ben definita (più o meno tra i 15 e i 25 anni, i ‘giovani’, appunto), di questa fascia di età si accorse anche l’industria: si trattava di un nuovo mercato totalmente vergine e da sfruttare.
Musicalmente, è forse una forzatura dire che dal rock’n’roll di Elvis Presley di Jerry Lee Lewis (Great hall of fire), Little  Richard (Lucille), Carl Perkins (Blue suede shoes), Gene Vincent (Be pop a Lula), Bill Haley (Rock around the clock) e mille altri derivi tutto il rock che ascoltiamo oggi, ma fu comunque dall’esplosione del rock’n’roll che i giovani iniziarono a rendersi conto che potevano avere musica che appartenesse solo a loro, che li identificasse.

Attorno alla metà degli anni ’60, prese forma un movimento musicale che per anni avrebbe influenzato pesantemente tutto il costume (comportamento e moda) e la cultura (musica, grafica, arte, design e letteratura): la psichedelia.
Fortemente influenzata dall’uso di stupefacenti (e in particolare di acido lisergico, l’LSD, visto come strumento indispensabile per raggiungere un auspicato stato di apertura mentale), la proposta artistica dei musicisti psichedelici prevedeva testi spesso dal forte impegno sociale, anelanti utopisticamente ad un’era di pace e amore (‘Peace & Love’ diventò lo slogan-simbolo di quel periodo), e musiche dilatate, a volte quasi ipnotiche.
Due band storiche come Grateful Dead e Jefferson Airplane furono i capofila di un vero esercito di musicisti ascrivibili a questo genere tra i quali possiamo annoverare le prime esperienze di due giovanissimi chitarristi che avrebbero poi avuto una carriera strepitosa come Carlos Santana (1947) e Frank Zappa (1940 – 1993).
Non vanno dimenticati altri gruppi come i newyorkesi Vanilla Fudge, i losangelini Byrds e soprattutto i concittadini Doors di Jim Morrison.

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Disco: Doors – L.A. Woman (1971)

Questo non è solo l’ultimo album (quello più blues) dei Doors ‘con Jim Morrison’ (che sarebbe morto un mese dopo la sua pubblicazione), ma può essere considerato ‘l’ultimo album degli anni ’60’. Perché dopo questo disco nulla sarebbe rimasto della musica del decennio precedente ormai spazzata via da nuove idee, nuovi suoni e nuove attitudini. Ma qui troviamo ancora il suono assolutamente sixtie dell’organo Hammond  e  l’anima blues che poi gran parte del rock avrebbe dimenticato. E certo nessun (inconsapevole) epitaffio poteva essere più indicato della monumentale Riders on the storm, un addio dolce, più rassegnato che disperato, che ha il sapore di tutta quella pioggia e disperazione dalla quale Morrison non sarebbe più emerso.

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Va sottolineato che, per alcuni anni, le canzoni rappresentano solamente un momento di svago, di disimpegno. I loro testi parlavano d’amore, di divertimento, di ragazze e di auto.
Fu Bob Dylan (Robert Allen Zimmerman, 1941), all’alba degli anni ’60, a raccogliere la lezione di folksinger come Woody Guthrie o Pete Seeger e a intuire che la canzone poteva essere il veicolo di istanze sociali più complesse.
Certo, ciò che Dylan cantava poteva magari essere letto nei libri o nei giornali, ma le sue canzoni avevano una diffusione e una immediatezza infinitamente superiore agli altri mezzi di comunicazione e per questo finirono per creare una coscienza sociale in quella nuova entità che erano i giovani.
Tuttavia, quando si dice che Dylan formò una coscienza sociale non si intende assolutamente dire che formò un’opinione politica: nelle sue ballate il cantautore poneva domande più che fornire risposte perché, come cantava nel suo  brano più famoso, Blowin’ in the Wind, tante volte la risposta non esiste. Dylan non ha mai detto quale fosse la soluzione dei problemi, ma ha sempre invitato l’ascoltatore a prendere coscienza del fatto che il problema esistesse. E di sicuro, all’epoca, non era poco.

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Disco: Bob Dylan – Blowin’ in the Wind (1963)

Scritta nel 1963, la canzone è diventata un simbolo e un inno che il tempo, le mode e le mutate sensibilità non sono mai riusciti a scalfire. In essa non si prendono posizioni politiche, non si dice no a qualcosa (alla guerra, alla violenza) o si a qualcos’altro (alla pace, alla fratellanza). In essa Dylan non ci fa alcuna predica, non dice cosa sia giusto e cosa sbagliato. Semplicemente, si fa e ci fa della domande. E non dà alcuna risposta perché forse una risposta non c’è. Però ci invita a riflettere, ci invita a porci noi stessi quella domande e quindi ad occuparci di questi problemi. Con questa canzone Dylan ci dice che è tempo di iniziare ad accorgersi di quello che non va e di chiedersi cosa sia possibile fare per migliorarlo.

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12) USA – Il Rock degli anni ’70: crisi e rivoluzioni

Poter cambiare il mondo (come ad esempio cantavano in Chicago Crosby, Stills, Nash & Young, principali esponenti della musica acustica della West Coast) era ovviamente un’illusione, ma un’illusione della quale fu coinvolta tutta una generazione, quella che si riuniva in folle oceaniche ai festival rock (500.000 a Woodstock nell’agosto del 1969) e che diede vita al movimento hippy. Un movimento che cercava disperatamente una via alternativa alle logiche del consumismo sfrenato portato dallo sviluppo economico e dall’industrializzazione.
La realtà degli anni ’70, con le sue profonde crisi economiche e sociali, le continue tensioni politiche, i conflitti in Sudamerica, in medio ed Estremo Oriente, risvegliò bruscamente questi sognatori.
Il più amato e ascoltato tra gli artisti che diedero voce a queste crisi e a tutte quelle che sarebbero seguite fu (ed è) Bruce Springsteen (1949) 

«Ho visto il futuro del rock e il suo nome è Bruce Springsteen», è la frase storica che scrisse il giornalista della rivista musicale Rolling Stone John Landau, e in effetti aveva visto giusto.
L’avrebbero detto gli anni successivi, ma allora era già possibile intuire che questo musicista era in grado di incarnare non solo il più autentico spirito rock, ma anche il più autentico spirito dell’America e degli americani.
In più con il suo successo, Springsteen ebbe il grande merito di rivitalizzare un panorama musicale, quello del rock statunitense appunto, che attorno alla metà degli anni ’70 stava languendo senza più molto a raccontare di nuovo.
Egli non influì pesantemente sul costume (come Elvis o i Beatles), non fu un rivoluzionario (come lo era stato il Dylan degli anni ’60), non ha lanciato stili, look o mode, ma pochissimi hanno saputo e sanno cantare come lui la vita della gente comune, dando voce ai suoi sogni e alle sue speranze, ma anche alle sue frustrazioni. Per queste ragioni il ‘Boss’ (come fu soprannominato) è subito divenuto per i giovani un personaggio in cui credere, un personaggio ‘vero’ che cantava con grande sincerità storie in cui tutti potevano riconoscersi. L’eroe positivo, autentico, pieno di entusiasmo di cui la gente aveva bisogno. Non uno che raccontava che tutto andava per il meglio, certo, ma che pur guardando in faccio alla realtà, trovava sempre, alla fine, un motivo per andare avanti nonostante le difficoltà. E sempre una possibilità di riscatto.
La carriera di Springsteen, nei decenni, si è dipanata con costante successo, ma sempre assolutamente al di sopra delle mode che non hanno mai cambiato il suo stile. Che si è certo evoluto secondo una normale maturazione ma che non ha mai tradito i propri presupposti artistici.

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Disco: Bruce Springsteen – Born to run (1975)

Pietra miliare nella storia del rock, in quest’album c’è tutta l’America. Certo: non era la prima volta che qualcuno cantava l’America, le sue autostrade infinite, le sue giungle d’asfalto, i suoi perdenti, i suoi vagabondi e suoi sogni infranti, ma qui tutto suona stranamente nuovo. Forse perché, sotto queste storie amare e dure, c’è una musica che non è solo il ‘solito rock’n’roll’, non solo il rhythm’n’blues nero che influenzava anche i musicisti bianchi, non il dolente folk dilaniano né le suadenti melodie della West Coast: ma tutto questo insieme. E forse perché anche nelle storie più tristi non manca mai un barlume di speranza, la possibilità, comunque, di ‘farcela’. Magari oggi certe soluzioni musicali o liriche possono suonare ridondanti, ma raramente il rock ha, prima o dopo, toccato i livelli di eticità di Born tuo run, Jungleland o Thunder road che ancora oggi, dopo oltre 40 anni, riescono ad emozionare. 

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Se esiste un musicista totalmente al di fuori degli schemi e delle mode, questo è Frank Vincent Zappa (1940 – 1993). Impossibile sintetizzare in poche righe la carriera straordinaria di questo chitarrista, compositore, bandleader (sempre contornato da musicisti eccelsi) di importanza straordinaria non solo per il rock, ma per tutta la musica del secolo scorso.
Si tratta infatti di uno dei pochissimi musicisti di estrazione popular ad avere goduto di grande considerazione da parte di molti musicisti e direttori d’orchestra di area ‘colta’ che ne hanno eseguito (e tutt’ora ne seguono) le musiche. Immensa la sua produzione (stiamo parlando di una sessantina di album – moltissimi doppi e tripli – pubblicati dal 1966 al 1993, più innumerevoli live, senza considerare la trentina di dischi postumi ‘ufficiali’ autorizzati dalla Zappa Family Trust), ma ancora più rilevante l’influenza che ha avuto sulle generazioni la sua musica assolutamente libera di muoversi tra rock, jazz e classica contemporaneamente senza mai rinunciare allo sberleffo, alla provocazione, al gusto di demolire convenzioni e schemi precostituiti.

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13) USA – Il Rock: punk, grunge e nuovo millennio

Anni ’70: il punk

Se le battaglie di Springsteen avevano tutto sommato sempre qualcosa di costruttivo e, in fondo, portano speranza, non bisogna credere che questa fosse la filosofia di tutto il rock americano del periodo.
Di verso diametralmente opposto era ad esempio la proposta di un gruppo fondamentale per il rock statunitense (e non solo) come quello dei Velvet Underground nato a New York nel 1964.
Il gruppo formato da John Cale e Lou Reed (1942 – 2013), sotto l’egida dello stilista Andy Warhol, con il suo suono duro e grezzo e le sue tematiche sociali, è considerato un autentico percursore di generi che si sarebbero sviluppati nel corso degli anni a venire: garage, alternative rock e punk.
Per loro 5 album fondamentali per comprendere la faccia ‘cattiva’ del rock americano di quel periodo.
Così proprio nei Velvet Underground, come negli MC5 e negli Stooges di Iggy Pop, vanno ricercati i semi del punk americano che esplose nella seconda metà degli anni ’70: una musica dura e rabbiosa tesa solo ad annientare perché, come dicevano i Ramones, ‘quando vivi in una prigione, la prima cosa da fare è distruggerla’.
Quella prima ondata di ‘gruppi ribelli’ vide sui palchi di locali di New York, gruppi come i citati Ramones, i Televison, Patti Smith, i Suicide o i Voivoids di Richard Hell, (ognuno di questi con le proprie peculiarità), prima di attraversare l’Oceano e dare il via in Europa ad un analogo movimento musicale. 

Anni ’80 tra post punk e grunge

Gli anni ’80 videro in punk che aveva proposto Ramones, Television, Patti Smith o Suicide, sopravvivere solo in abito underground col nome di hardcore grazie a gruppi come Agnostic Front, Circle Jerks e soprattutto Dead Kennedys, mentre prendeva piede la cosiddetta no wave di DNA, Sonic Youth o Nick Cave & Bad Seeds, gruppi dalla grande strumentazione basica (chitarra, basso, batteria) e con una proposta volutamente ostica  opposta a qualsiasi forma accattivante di rock. Ad essi si contrapponevano diversi gruppi con proposte più elaborate e ricche di riferimenti colti: i componenti di Talking Heads e Wire venivano da istituti d’arte, i Bauhaus si rifacevano alla nota scuola architettonica, i cabaret Voltaire presero il loro nome dai dadaisti, i Pere Ubu dall’opera di Alfred Jarry, i Tuxedomoon si producevano in performance tra musica e teatro proponendo un mix tra colonne sonore da b-movie, atmosfere dark e cabaret, i Devo partivano da un elaborato concetto di de-evoluzione e si presentavano in divisa, indistinguibili, per dare l’idea di essere macchine non essere umani…
Tutte queste proposte animavano l0underground americano, mentre le classifiche erano popolate da star come Hall & OatesLionel Richie (1949), Billy Joel (1949) o Madonna (1958), dai ruggiti dei vecchi leoni dei decenni precedenti (Santana, Springsteen, Dylan, Neil Young, ecc.) dal rock accattivante, pur di altissima qualità, ma non particolarmente innovativo Southern rock di Allman Brothers, Lynyrd Skynyrd, Molly Hatchet e Outlaws.
Nella seconda metà degli anni ’80, prese però le mosse nel nord ovest degli States (a Seattle) un fenomeno musicale che riportò il rock più immediato agli onori delle classifiche: il grunge.
Il grunge può essere considerato un figlio non degenere del college rock (poi detto alternative rock) dell’inizio del decennio (capofila i R.E.M.), ma di fatto, come grunge vennero classificati gruppi stilisticamente anche molto diversi, come i Nirvana di Kurt Cobain (1957 – 1994), i Pearl Jam, i Soundgarden, gli Alice in Chains, gli Jane’s Addiction, i Pixies e gli Smashing Pumpkins.

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Ipse Dixit: «Gli anni ’90,come era musicale, sono cominciati tardi e finiti presto. Un decennio che vede la luce con i power corda di Smells like teen spirits e si spegne con l’intro di pano di Hit me baby one more time.
L’Anti-pop defenestrato dal pop, sapete com’è andata. Ma la storia dei Noneties è in realtà ben più ricca, divertente e strana di come la si riassume.
Abbiamo ascoltato canzoni di band pseudo-grunge migliori di quelle dei gruppi realmente grunge, abbiamo visto reduci degli anni 80 come U2 e R.E.M. raggiungere le loro vette artistiche (rispettivamente con ‘Achtung Baby’ e ‘Automatic for the peolple’) e gruppi come Metallica e The Black Crowes passare su MTV, mentre Vanilla Ice e MC Hammer cedevano il loro trono, in pochi anni, a Dr. Dre, Snoop Dog e Eminem».
(Brian Hiatt – Introduzione a ‘The ‘90s: The inside storie from the decade that rocked’)

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Il Nuovo millennio

Ma un elemento va sottolineato: se è vero che l’America ha visto nascere la musica rock, la canzone socialmente ‘impegnata’ e la sperimentazione musicale nel periodo psichedelico, dagli anni ’70 in poi, molto raramente ha offerto al panorama mondale reali innovazioni musicali, limitandosi per lo più a rielaborare senza posa schemi preesistenti.
Le band emerse nel nuovo millennio non hanno rappresentato quindi niente di veramente innovativo nel panorama rock.
Sul versante pop si è assistito invece ad una sfilata infinita di musicisti e gruppi di grande successo ma dall’effimera carriera.

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14) Europa – Il rock degli anni ’60

Torniamo indietro: alla fine degli anni ’50.
In quel periodo, il rock’n’roll sbarcò in Inghilterra dove già  erano arrivati da oltre Oceano il blues e il jazz degli States e dove aveva grande seguito lo skiffle, un genere ritmico di derivazione jazzistica.
Di fatto fu dall’unione di questi generi musicali che prese origine (e peculiarità) il rock inglese, in qualche maniera abbastanza differente da quello americano dello stesso periodo.
I primi ad avere successo con questa formula furono gli Shadows del cantante Cliff Richard, ma il primo grande fenomeno musicale (ma anche sociale) britannico fu rappresentato all’inizio degli anni ’60, dai Beatles. Chi però trovava Paul, George, Ringo e John troppo ‘puliti’ ed ‘educati’ (non certo gli adulti che comunque giudicavano indecenti e sovversivi quei ‘capelloni urlanti’), optava per gli storici antagonisti, i Rolling Stones: ‘brutti, sporchi e cattivi’, come si diceva all’epoca, e molto più duri (musicalmente). Con album epocali come ‘Their satanic majesties request’ (1967), ‘Sticky fingers’ (1971) o ‘Exile on Main Street’ (1972) gli Stones si imposero come uno dei gruppi più importanti e influenti del mondo, statura artistica che tuttora mantengono, mezzo secolo dopo la loro esplosione!
Beatles e Rolling Stones erano i principali esponenti di un genere musicale (ma anche di una moda e di u fenomeno di costume che presto invase tutta l’Europa e successivamente l’America con la cosiddetta British Invasion) chiamata beat, che prevedeva comunque ancora brani di grande semplicità musicale e testi decisamente disimpegnati.
Era un panorama musicale popolato da decine e decine di band (tra cui i Kinks, i primi Who, e poi Hollies, Zombie, Small Faces…) che influenzò tutta la musica europea.

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Ipse Dixit: «Caro direttore, ho paura che presto ci capiti un’altra sciagura nazionale: sento dire che presto verranno anche in Italia i Beatles, quattro giovanotti disertori della vanga che col loro jazz fanno impazzire mezza Europa. Quando la finiremo a calpestare le aule del bel canto italiano?» Ugolino Pieracei – Lettera alla Domenica del Corriere del 1 marzo 1964.

«Egregio Direttore, non crede che Beatles che godono di una libertà fanatica, corrompano i costumi dei nostri giovani? Quei capelli lunghi, quegli urli, quella volgarità non producono nulla di buono.» Ettore Massa – Lettera a Gente dell’8 settembre 1965.

«Egregio Dottor Rusconi come, dunque, questi impudenti urlatori d fiera sarebbero degli artisti? Ma, in nome di Dio, cos’è l’arte? I Beatles sono dei forsennati che alla maniera delle baccanti inscenano spettacoli rumorosi e quasi orgiastici tra una musica assordante e movimenti incomposti.
L’esaltazione di autentici mostri che tuttavia vanno per la maggiore deve finire.»
 Colonn. Giuseppe Bellacosa – Lettera a Gente del 3 novembre 1965.

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Per molti storia di popular music, il gruppo di Paul McCartney (voce, basso), John Lennon e George Harrison (voce, chitarre) e Ringo Starr (batteria) è da considerare il più importante fenomeno musicale e di costume di tutti i tempi.
Anche se a molti ascoltatori di oggi tale asserzione può sembrare esagerata e contestabile, essa è probabilmente giustificata. Dunque va spiegata.
L’esplosione dei Beatles avvenne nei primi anni ’60, quando il rock aveva già avuto un idolo amato e imitato come Elvis Presley. Ma, in Europa, Elvis non aveva avuto lo stesso impatto che negli USA, i Beatles, invece, finirono molto presto per influenzare non solo tutta una generazione di musicisti, ma anche il modo di pettinarsi, di vestirsi e di atteggiarsi di milioni di giovani del Vecchio Continente: era la prima volta che nel Vecchio Continente un cantante o un gruppo aveva una tale rilevanza sociale.
Ma i quattro di Liverpool sono stati fondamentali soprattutto dal punto di vista musicale. Perché se è vero che nei primi album i Beatles si muovono sulla falsariga di generi già collaudati (il rock’n’roll, prima, il beat, dopo), con l’andare del tempo essi riuscirono a maturare uno stile musicale personalissimo e ad inserire nelle canzoni talmente tante invenzioni e innovazioni tecniche e musicali da influenzare in maniera determinante il modo di comporre, di arrangiare e di registrare in ambito rock, aiutati in maniera determinante in questo percorso dal geniale produttore George Martin.

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Disco: The Beatles – Revolver (1966)

Ecco l’album in cui i Beatles si tuffarono a pesce nella ricerca e nello sperimentalismo sonoro oltre a toccare tutti gli argomenti, dalle tasse al buddismo, esplorando tutti i generi musicali: dalla canzonetta infantile (Yellow submarine) al rhythm’n’blues (Got to set you into my life), dal pop psichedelico (She said she said) alla musica orientale (Love you to), al blues (Taxman). Poi ci sono i capolavori intramontabili. Come Eleanor Rigby, scritta da Paul e arrangiata da George Martin con l’uso geniale di un doppio quartetto d’archi: il suo splendido testo, nella parte conclusiva, con la morte della protagonista e il prete che si pulisce le mani dalla terra allontanandosi dalla sepoltura, non mancò di sconvolgere il pubblico. O come Tomorrow never knows che è la canzone più sperimentale mai incisa dai Beatles fino a quel momento. Il testo ispirato al tibetano ‘Libro dei morti’ è cantato da John con al voce filtrata da un amplificatore Leslie per organo, ottenendo un’atmosfera quasi mistica. Scritto da Lennon sotto l’influsso dell’LSD (il ‘Libro dei morti’ è testo di riferimento della cultura lisergica) parla dell’acido e del suo universo. In questo senso, è stato uno dei brani più socialmente influenti del gruppo.

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Naturalmente, negli anni ’60 in Gran Bretagna non c’erano solo gruppi beat. Accanto a questa musica di fatto più ‘commerciale’ e di facile ascolto, una fiorentissima scena di derivazione blues vedeva la presenza di personaggi come Eric Clapton (1945) e suoi Cream, Jimmy page, che avrebbe formato i Led Zeppelin, John Maya, Eric Burdon e gli Animals.
A metà del decennio, poi, assieme a quella americana prendeva corpo una scena psichedelica inglese, alla quale si collegarono gruppi come i Pink Floyd di Syd Barrett, i Soft Machine e tutta la cosiddetta ‘Scuola di Canterbury’, una interessantissima scena fiorita nell’omonima cittadina. Oltre, come visto agli stessi Beatles.
E poi, quello che viene considerato il più grande chitarrista della storia del rock: Jimi Hendrix (1942 – 1970), nato negli Stati Uniti, a Seattle, ma anche in Inghilterra trovò la propria consacrazione.
Hendrix rappresentò, nella seconda metà degli anni ’60, il confluire di una miriade di influenze, musicali ma non solo: nel suo stile erano mescolati psichedelia bianca e blues nero, rock e rhythm’n’blues. Artista dalla presenza carismatica sul palco, con la sua tecnica chitarristica straordinariamente innovativa e grazie ad un suo rivoluzionario di effetti, echi e feedback, riusciva a trarre dal suo strumento suoni mai sentiti prima. Indubbiamente, Hendrix è stato il chitarrista con maggiore influenza su generazioni e generazioni di musicisti: il suo mito, alimentato dalla morte prematura (destino comune a tanti dall’epoca) ha comunque solidissime basi nei quattro album realizzati in vita (‘Are you experienced’, 1967, ‘Axix: bold as love’, 1967, ‘Elettric ladyland’, 1968 e ‘Band of gypsy’, 1970), ben più che nelle decine di dischi realizzati con vecchio materiale a suo tempo scartato, pubblicato dopo la sua morte.

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Disco: Jimi Hendrix – Elettric ladyland (1968)

L’ultimo album in studio di Jimi Hendrix rappresenta forse anche il vertice della sua ricerca sonora. Il lavoro raccoglie infatti un’enorme quantità di idee e di intuizioni che avrebbero fatto scuola per decenni. La concretezza e la carnalità del blues incontra l’evanescenza e le dilatazioni della psichedelica in un matrimonio sulla carta (ma non sul vinile) impossibile: così, per una terrena Voodoo Chile, abbiamo un’eterea Have you ever been (to Eletric ladyland) e accanto al messaggio universale della dilaniata All along the watchtower, l’intimità personale di Gypsy eyes, dedicata alla madre. Un doppio album pieno di rimpianto per quanto Hendrix avrebbe potuto dare alla musica se altri (falsi) paradisi non l’avessero rapito.

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15) Il rock degli anni ’70 (1/2)

Tra gli anni ’60 e gli anni ’70, l’Inghilterra e Londra in particolare erano una fucina di creatività non solo in ambito musicale: le idee più innovative nel campo della moda, del design e dell’arte venivano da li.

A Londra, strade come Carnaby Street, King’s Road o Regent Street (e ovviamente i loro negozi, laboratori e atelier) erano inevitabile punto riferimento per chi volesse tenere d’occhio l’evolversi, a volte anche frenetico, dei costumi e delle tendenze. Si trattasse del lancio di una scandalosa gonna sopra il ginocchio (la “minigonna” di Mary Quant) o dell’ultima folle idea dei Pink Floyd.

Non stupisce quindi che in quel periodo anche il rock conoscesse evoluzioni continue e continue frammentazioni in sottogeneri, anche molto distanti loro. Così alcuni gruppi optarono per un suono duro e fortemente ritmi (hard rock), altri per uno sviluppo estremo della tecnica di composizione con brani elaborati e complessi (progressive rock), altri cercarono interessanti fusioni con l’universo dell’arte contemporanea (art rock), al si dedicarono essenzialmente all’aspetto visuale e giocosamente trasgressivo (glam rock), altri ancora si fecero pronubi del fertilissimo matrimonio tra rock e jazz, altri infine dedicarono a sperimentazioni estremamente interessanti in una terra di nessuno tra classica, jazz e rock psichedelico (la citata, fertilissima, «Scuola di Canterbury»). Infine va detto del recupero, i questi anni, del patrimonio musicale folkloristico da parte di band come Pentangle (ma i primi due bellissimi album sono ancora della fine degli anni ’60), Fairport Convention e Steeleye Span.

Hard rock ed heavy metal

Caratterizzato da una proposta agreressiva nelle sonorità e nelle ritmiche, l’hard rock (rock duro), ha avuto nei decenni esponenti un po’ in tutto il mondo. Solo negli anni ’70, dagli Stati Uniti arrivarono Iron Butterfly, Ted Nugent, Grand Funk Railroad, Steppenwolf, Blue Oyster Cult, Aerosmith, Van Halen, Alice Cooper, Z7 Top, Kiss e, tutto il filone del southern rock, dall’Australia gli AC/DC, dal Canada i Triumph, dalla Germania gli Scorpions, dall’Italia il Rovescio della Medaglia.

Molto significativi erano comunque i gruppi inglesi, forse quelli che godettero di maggior successo internazionale e la cui proposta risultava più stilisticamente varia. Tra i tantissimi, possiamo ricordare almeno Deep Purple (nelle loro diverse formazioni succedutesi nei decenni), Black Sabbath autori di un hard rock tetro e funereo precursore di tanto metal del decennio successivo, Led Zeppelin, con un personalissimo stile che fondeva blues, rock duro, psichedelica e reminiscenza folk, e Who cui si deve la prima, fondamentale, opera rock della storia: ‘Tommy’ del 1969.

Nati artisticamente in ambito blues, Jimmy Page, chitarra, Robert Plant, voce, John “Bonzo” Bonham, batteria, e John Paul Jones, basso e tastiere, i Led Zeppelin hanno rappresentato una delle realtà più interessanti ed influenti della storia del rock, godendo anche di un successo enorme (circa 300 milioni di dischi venduti). La loro storia (9 album ufficiali e molte raccolte) è finita con la scomparsa del batterista John Bonham avvenuta il 4 dicembre 1980 anche se gli altri tre sono tornati sul palco altre volte, come in occasione del Live Aid nel 1985. La musica del gruppo si richiamava, soprattutto agli inizi, alle basilari strutture del blues (la band fu spesso accusata di saccheggiare quel repertorio senza riconoscerne gli autori) ma presto accolse anche influenze folk e psichedeliche. E, alla fine, nonostante i Led Zeppelin siano universalmente riconosciuti tra i principali esponenti del rock “duro”, da molta parte della critica è stato loro rimproverato di non essere “sempre” duri come avrebbero potuto e dovuto essere. Page, Plant, Bonham e Jones invece avevano orizzonti musicali più ampi come è ben espresso dalla monumentale e leggendaria Stairway to heaven e per loro era una necessità ineludibile alternare la violenza di Immigrant song (il cui “attacco” è stato votato come il più devastante della storia del rock), alle atmosfere bucoliche di Black mountain side, lo sperimentalismo sonoro di Whole lotta love e le emozioni di Since I’ve been loving you, uno dei più intensi, struggenti ed emozionanti blues mai scritti o cantati.

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Disco: Led Zeppelin – III (1970)

Dopo i trionfi dei due album precedenti, il terzo era tanto atteso che dovette uscire in tutta fretta con una copertina provvisoria. Appena messo sul piatto, molti pensarono che il solo attacco dell’iniziale Immigrant song valesse buona parte dei soldi spesi. Arrivati a Since I’ve been loving you quasi tutti erano convinti che sarebbe stato impossibile spenderli meglio, quei soldi.
L’universo musicale di questo album oscilla fra il devastante brano d’apertura e questo intensisimo blues, ma prevedeva anche puntate nel folk, chitarre acustiche e atmosfere bucoliche. Tanto eclettismo non era apprezzato da chi da Page e Plant voleva solo bordate sonore, e iniziò a considerare finita la vicenda del Dirigibile. Invece di lì a poco il gruppo avrebbe tirato fuori il brano che gli avrebbe consegnato l’immortalità: Stairway to heaven.

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16) Il rock degli anni ’70 (2/2)

Progressive rock

Durante gli anni 70, il progressive rock (o prog) rappresentò l’evoluzione massima della composizione in ambito rock.

Osteggiato da chi preferiva immediatezza e aggressività, adorato da chi a rock chiedeva invece maggiore complessità e profondità, questo genere prevedeva brani anche di lunga durata (fino a venti, trenta minuti) e estremamente elaborati.

Per scriverli ed eseguirli, i musicisti di GenesisEmerson Lake & PalmerKing CrimsonYesVan Der Graaf Generator, ecc. dovevano possedere solide basi teoriche compositive e un’abilità tecnica straordinaria.

In tali proposte risultava fortissima l’influenza della musica colta, una vicinanza tra i due mondi che a volte ha finito per concretizzarsi anche nella rievocazione in chiave rock di brani classici da parte di gruppi come Emerson Lake & Palmer, Nice, Renaissance, Jethro Tull, ecc.

Esistono almeno due Pink Floyd, o meglio, un solo gruppo dalle due facce.

Formatisi alla fine degli anni 60 sotto l’influenza del genio visionario del chitarrista Syd Barret (1946 – 2006), i Pink Floyd si segnalarono immediatamente come gruppo interessato alla più estrema sperimentazione musicale a e visiva (quest’ultima, ovviamente nei concerti arricchiti da fantascientifici – per l’epoca – impianti luce).

I loro primi album sono a buon diritto ascrivibili al filone psichedelico inglese, del quale sono considerati necessari punti di riferimento. Tuttavia nel 1973, la band cambiò decisamente direzione (ecco i “secondi” Pink Floyd) con l’album “The dark side of the moon”: perso Barrett, divenuto incapace di conciliare disturbi mentali e uso di droghe con la sua presenza nel gruppo, con questo album la band si indirizzò verso una musica più accessibile al grande pubblico, dando sfoggio di genio compositivo e di grande capacità di intuire cosa potesse piacere alla gente.

Ottenuto un immenso successo (il disco restò ininterrottamente in classifica per oltre trent’anni vendendo più di 50 milioni di copie) se pure accusati di tradimento da parte dei fans della prima ora, i Pink Floyd negli anni avrebbero centellinato le loro produzioni discografiche regalando tuttavia al pubblico un paio di capolavori assoluti (‘Wish you were here’, ‘The wall’) e diverse altre pagine di alto livello.

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Disco: Pink Floyd – Atom Earth mother (1970)

Non il lavoro più noto dei Pink Floyd, non quello di maggior successo, ma questo album, per alcune caratteristiche, va segnalato. Magari, riscoperto. Stiamo parlando dei Floyd pre-“Dark side”, quindi lontani dal grande successo commerciale e ancora pesantemente influenzati dalla psichedelia. Ma sono Pink Floyd che stanno cercando di esplorare nuove strade.
Centro nodale dell’album è la splendida (in alcuni momenti, esaltante) suite di 25 minuti che titola l’album, nella quale il suono del gruppo si fonde con quello di un’orchestra sinfonica con una perfezione quasi mai raggiunta nei tanti altri esperimenti del genere. Tra gli altri pezzi di stile psichedelico si segnalano la dolce ballata If e i 13 lisergici minuti di Alan’s psychedelic breakfast.

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Come abbiamo visto, all’inizio degli anni ’70, il rock non era più solo la musica aggressiva e spensierata delle origini: guardava con grande interesse alla musica classica, alla letteratura e all’arte.

Non stupisce quindi che alcuni dei suoi esponenti non fossero semplicemente ragazzi con un giubbotto di pelle e una chitarra a tracolla: David Bowie (David Jones, 1947 – 2016), ad esempio – e non era certo l’unico – prima di mettersi a fare musica aveva studiato cinema, arte, teatro e letteratura, e nella sua proposta artistica “globale” confluirono tutti questi interessi.

I suoi concerti dei primi anni ’70 erano autentiche performances d’arte moderna, tese ad amplificare l’aspetto “finzione” insito nell’esistenza stessa della rockstar. Nel corso di questi spettacoli si produceva infatti in un plateale trasformismo estetico amplificato dalla dichiarata bisessualità, incarnando il personaggio alieno di Ziggy Stardust. Fingere in maniera clamorosa, insomma, per evidenziare la finzione di quanti, sul palco, pretendono invece di essere “autentici”

Buona parte degli anni ’70 lo videro impegnato in questo tipo di ricerca (estetica, musicale e concettuale), poi, abbandonate le vesti di Ziggy per un look classico ed elegante (in clamoroso contrasto con le spille da balia, le folli acconciature e i jeans strappati del punk che stava sorgendo), si dedicò l’esplorazione della musica elettronica realizzando alcuni album di cerca, ma anche al cinema e al teatro.

I decenni successivi l’avrebbero sempre visto impegnato in un proprio percorso che, di volta in volta, ha ignorato le tendenze musicali temporanee o le ha destrutturate e ricostruite a proprio uso e consumo. Finendo per diventare uno dei personaggi fondamentali della storia della musica rock.

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Disco: David Bowie – The rise and fall Ziggy Stardust and the Spiders from Mars (1972)

Questo disco parte da una maschera, quella di Ziggy Stardust, alieno “caduto sulla terra” in cui convivono il cabaret mitteleuropeo d’anteguerra e la fantascienza di Kubrick, il glam più volgare e le intuizioni più sottili. Dal punto di vista musicale, l’album offre ballate romantiche, rock’n’roll tiratissimi da suonare a tutto volume (come si raccomanda in copertina) e, appunto, glam: voci sguaiate, melodie struggenti, arrangiamenti al limite del pacchiano che non sanno rinunciare agli effettoni dell’orchestra. Un miscuglio che sarebbe insopportabile se dietro non ci fosse tantissima autoironia, ottime intuizioni e, alla fine, alcuni autentici capolavori entrati nella storia: Five years, Moonage daydream, Starman, Ziggy Stardust e Rock and roll suicide. Mica pochi per un disco solo.

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Nel resto d’Europa

Cosa succedeva in quel periodo nel resto dell’Europa? Non molto va detto.

Certo ogni paese aveva la propria scena rock e pop, ma raramente di livello internazionale. Tra i pochi che hanno ottenuto qualche popolarità fuori dal proprio paese possiamo ricordare gli olandesi Focus e i francesi A.N.G.E. e Magma, (tutti progressive rock), gli svedesi ABBA e i tedeschi Scorpions (hard rock). Ma anche nel caso di un grande successo (360 milioni di dischi venduti dagli ABBA), niente di particolarmente originale.
In questo senso forse l’unico fenomeno continentale di rilievo di quegli anni fu quello della cosiddetta ‘musica cosmica’ fiorito in Germania dalla fine degli anni ’60.
In realtà sotto questa etichetta finirono esperienze musicali affalto diverse: la psichedelia dei Faust (“IV”), dei Can (“Tago mago”) e degli Ashra Tempel (“Schwingungen”), il misticismo laico/religioso dei Popol Vuh (i bellissimi “Hosianna mantra” e “Seligpreisung”), le meditazioni elettroniche di Klaus Schulze e dei suoi Tangerine Dream (‘Phaedra’), i deliri anarchici degli Amon Düül (‘Vive la Trance’), ecc. Fu in questo variegato panorama musicale, che per lo più aveva come denominatore comune l’uso degli strumenti elettronici e la ricerca di un linguaggio svincolato dai modelli anglosassoni, che avrebbero in qualche modo preso il via anche le sperimentazioni (meno “sognanti” ed effettistiche) di un gruppo che tra gli anni 70 e ’80, avrebbe conosciuto un notevole successo commerciale: i Kraftwerk.

1 Kraftwerk possono essere considerati i veri padri della moderna computer-music. Il loro contributo allo sviluppo della musica elettronica è infatti riscontrabile in molte delle produzioni techno ed electro di fine millennio (ne parleremo nel capitolo dedicato alla dance). La loro intuizione fu di usare, fin dall’inizio degli anni ’70 e con quel poco che la tecnologia metteva a disposizione, le macchine come strumento compositivo. «Autobahn” “Trans Europe Express” e “The man machine” i loro dischi più significativi, ad evidenziare un percorso che riguardò non solo la loro musica ma anche lo stralunato modo di porsi sul palco: distaccati ed inespressivi, molto più vicini al mondo delle macchine che non a quello degli esseri umani. Chi scrive assistette ad un concerto in cui i quattro, dopo due brani, si alzarono dalle loro poltrone in platea e salirono sul palco prendendo il posto di quelli che tutto il pubblico aveva preso per i musicisti ma che in realtà erano solo dei manichini…

17) Il rock fine anni ’70 e ’80

Il punk prende le mosse negli Stati Uniti attorno alla metà degli anni ’70. Solo dopo sbarca in Inghilterra. Ambasciatori di questa nuova musica, furono il primo album dei Ramones (omonimo) e l’ex manager dei New York Dolls. Costui si chiamava Malcom McLaren, un 25enne londinese trasferitosi in Usa, che, tornato a Londra, radunò un gruppo di scalciati musicisti da lui battezzati Sex Pistols. Forse McLaren voleva solo lanciare una moda, ma quella ‘nuova cosa’ trovò terreno fertile in una generazione che sentiva l’esigenza di ribellarsi contro l’industria discografica e spazi vitali negati. Se infatti alle sue origini il rock era immediatezza e ribellione, cosa avevano di autenticamente rock le suites di 40 minuti di Mike Oldfield (1953) autore di un album di enorme successo e grande bellezza come ‘Tubular bells’, o le intricatissime costruzioni musicali del progressive, o ancora, certo pomposo e prolisso hard rock?
Dunque il punk esplose fragorosamente a Londra dando voce a spazio a centinaia di giovani che non aspettavano che l’opportunità di scatenarsi in maniera finalmente libera.
Tuttavia, se il punk ha avuto socialmente una carica dirompente ed è stato concettualmente rivoluzionario visti i tempi e gli stili imperanti, dal punto di vista strettamente musicale non fu una vera rivoluzione: di fatto riprendeva caratteristiche già nel rock come spregiudicatezza dei temi, immediatezza, ingenuità, ritorno a canzoni brevi e immediate e dalla struttura semplicissima.
Dunque le caratteristiche distintive del punk erano:
– Grande velocità e brevità dei brani
– Ritmica martellante e non elaborata
– Formazione tipo con 2 chitarre, basso, batteria, ma niente tastiere
– Canzoni dalla semplice struttura strofa/ritornello a volte con bridge (intermezzo centrale)
– Tecnica esecutiva non necessariamente ineccepibile (anzi!)
Va sottolineato come per i musicisti punk l’esigenza primaria era esprimersi, non farlo in maniera accurata come solo pochi anni prima. Durante il primo concerto dei Ramones in Inghilterra, il 4 luglio 1976, il gruppo incontrò alcuni fans che erano anche musicisti: erano membri dei Sex Pistols e dei Clash. Paul Simonon disse che i suoi Clash non avevano ancora fatto nessun concerto perché non si sentivano ‘abbastanza bravi’, Johnny Ramone gli rispose: ‘Voi siete pazzi, noi suoniamo male, ma non è necessario essere bravi, basta andare sul palco e suonare. Dopo due giorni i Clash tennero il loro primo concerto.
Gruppi come Sex Pistols, (per loro di fatto uno solo album in studio, ‘Never mind the bollock’ del 1977, ma fondamentale per la storia del rock), DamnedClash, e moltissimi altri diedero vita ad una breve e intensa stagione musicale che di fatto azzerò completamente tutto quello che era esistito prima e gettò le basi per quanto sarebbe venuto dopo.
Travolti da questa ondata, i ‘mostri sacri’ del panorama rock precedente finirono infatti per perdere consensi: sopravvissero a questa rivoluzione (e all’odio delle giovani generazioni di musicisti e ascoltatori) i pochi che nella loro carriera erano rimasti aderenti all’idea di un rock considerato come espressione artistica immediata, sincera e non artefatta, come Bruce Springsteen, Rolling Stones, Bob Dylan, Neil Young o Lou Reed. Accanto a loro, quelli il cui successo era tale da non poter essere scalfito dal succedersi delle mode (Queen, Bowie) ed alcun eroi del pop come i più volte citati Elton John, Madonna, Paul McCartney o i Genesis che dopo l’uscita di Peter Gabriel avevano gradatamente abbandonato il progressive per una musica più semplice e di maggior successo commerciale.
Quella generazione di musicisti violenti e ribelli era comunque impreparata a confrontarsi con le regole dell’industria discografica (e magari cambiarle) e la loro musica poteva essere perfetta per demolire l’ordine precostituito ma, basata su una povertà formale assoluta, non aveva alcuna possibilità di resistere al tempo.
Il punk rock, nelle forme in cui era esploso, si esaurì nel giro di pochi anni: morì ‘ufficialmente’ nel 1979 con la morte violente (e mai chiarita del tutto) di Syd Vicious bassista dei Sex Pistols e nel momento in cui alcuni gruppi, come i Clash, cedettero alle lusinghe delle major discografiche o, semplicemente, sentirono l’esigenza di affinare ed elaborare la loro proposta musicale. In particolare i citati Clash nella loro carriera avrebbero realizzato album fondamentali per la storia del rock come ‘London Calling’ o ‘Sandinista’, ma i fans della prim’ora non perdonarono mai loro di ‘essersi venduti a logiche commerciali’.
Il punk della prima ondata, dunque, durò pochi anni, tuttavia fu da quel ciclone e dal rinnovamento che esso portò nel panorama musicale, che presero origine le esperienze più significative degli anni ’80. 

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Ipse Dixit: «Sono un anticristo/sono un anarchico/non so cosa voglio/ma so come averlo/voglio distruggere la gente comune/perché voglio essere un anarchico/non un cagnolino/anarchia per la Gran Bretagna/primo o poi arriverà/forse sto vivendo il momento sbagliato/fermate il traffico/il tuo sogno è fare shopping in un supermercato/(ecco) perché io voglio che l’anarchia sia in città/di tanti modi di avere quello che vuoi/io uso il meglio/io uso gli altri/io uso il nemico/io uso l’anarchia/perché voglio che l’anarchia/sia il solo modo di essere/è questa la M.P.L.A. o l’U.D.A. o l’I.R.A.? Io pensavo fosse la Gran Bretagna/o un altro paese/un’altra stupida tendenza/voglio che sia anarchia/voglio che sia anarchia/lo capisci?/allora incazati/distruggi» (Sex Pistols, Anarchy in UK)

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Fine anni ’70: r’n’b, ska e reggae

Mentre infuriava il punk, le nuove generazioni, avevano però anche l’esigenza di divertirsi, di ballare… C’è chi lo faceva al ritmo della nascente disco music, chi invece preferì recuperare il vecchio rhythm’n’blues, considerata si ‘solo’ una musica fisica, divertente e danzereccia e quindi lontana dai presupposti del punk, ma che nella sua immediatezza e ‘sincerità’ non tradiva lo spirito della nuova musica giovane.
Spesso, tuttavia, una grande energia danzereccia nascondeva nei testi tematiche sociali. Lo ska ad esempio, parla degli operai schiavi di una vita di lavoro cui non resta che bere birra.
Parlando infine di quel periodo, non si può però evitare di dar conto di un fenomeno musicale, in qualche maniera estraneo al rock esploso in Inghilterra e che ebbe immediatamente un grande successo mondiale. Sto parlando del reggae giamaicano, una musica che nei Caraibi aveva una lunga tradizione ma che a Londra trovò la spinta per imporsi a livello planetario, finendo per influenzare sia il rock – ad esempio nella proposta di gruppi come Police o UB40 o in album di artisti non reggae come per esempio ‘Black and blue’ dei Rolling Stones.
Se è vero che molti gruppi e musicisti europei o americani ne adottarono la ritmica ‘zoppicante’ è anche vero che furono i più autentici esponenti di questa musica ad avere successo in prima persona, musicisti come Peter Tosh (1944 – 1987) o Bob Marley (1945 – 1981), capofila di una nutrita schiera di artisti giamaicani che godevano per diversi anni di enorme successo.

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Disco: Bob Marley – Exodus (1977)

Questo album è considerato uno dei vertici di tutta la musica reggae, non solo di Marley. Il musicista lo incise a Londra dove, entrato in contatto con la scena reggae inglese e col punk, comprese l’importanza del proprio ruolo sia come artista che come leader per la sua gente. Realizzò quindi un lavoro dove ritroviamo tutti gli aspetti della sua musica, della sua filosofia di vita e della sua religione. Canzoni d’amore, di rabbia e ribellione, di speranza e fede, di fratellanza universale e gioia. «Aprite i vostri occhi e guardatevi dentro/Siete soddisfatti della vita che state vivendo?/Noi sappiamo dove stiamo lasciando Babilonia, per tornare nella terra di nostro padre/Esodo, movimento del popolo di Jah».

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Anni ’80: tanta vita dalle macerie del punk

Dalla ventata di novità del punk, fiorirono alcune realtà di assoluto rilievo artistico: esperienze che musicalmente poco avevano a che vedere col punk stesso, ma moltissimo con la volontà di rinnovare gli ormai usurati stilemi del rock anni ’70.
Talking Heads, i primi Police, i Tears For Fears, i Jam, gli Style Council, i Joy Divison, Cure, gli Dire Straits ecc. ecc. Sono la minima parte di gruppi e musicisti che in qualche modo e in maniere diverse, contribuirono a rinnovare il suono di quegli anni.

A vantare una storia che prese le mosse all’inizio degli anni ’80, vi furono gli irlandesi U2.  Quando nel 1981, pubblicarono il loro primo album ‘Boy’, il disco arrivò come un pugno in faccia, qualcosa di inaspettato e di diverso da tutto quando andava in quel periodo. Era rock vero, fatto da più dalle chitarre e dalla batteria che dagli strumenti elettronici che in quel momento dominavano e i testi parlavano di problemi reali, importanti di impegno e di una dichiarata, accesa, fede in Dio.

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Disco: U2 – The Joshua tree (1987)

‘The Joshua tree’  è considerato uno dei picchi creativi della band di Dublino. Ma è stato anche un album di enorme successo (20 milioni di copie vendute), con brani divenuti pietre miliari nel percorso artistico del gruppo. Momenti che spiccano in un progetto musicale comunque coeso e compatto. Nel disco si esprime compiutamente tutta la forza sonora degli U2 ma anche, nei testi, tutta la loro potenza espressiva. Eppure non sono solo i valori tecnico-artistici in senso stretto a fare di questo lavoro una delle vette del gruppo, quanto lo straordinario impatto emotivo, quel ‘qualcosa’ che parla al cuore prima ancora che al cervello.

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18) Il rock: Africa e anni ’90

Attorno alla metà degli anni ’80, l’occidente si accorse improvvisamente della musica africana.
Successe che nel 1986 Paul Simon (1941), grande cantautore americano che negli anni ’60 aveva avuto un enorme successo in coppia co Art Garfunkel, pubblicò l’album ‘Graceland’, disco splendido, profondamente influenzato dalle ritmiche e dalle soluzioni sonore e musicali dei musicisti sudafricani e ghanesi che vi avevano contribuito.
La musica occidentale di accorse così dell’immensa ricchezza di quell’universo sonoro, e moltissimi furono i musicisti che vi si ispirarono. E, quel che più conta, si aprirono le porte a molti artisti che dall’Africa arrivarono a proporre la propria musica in prima persona in Europa e in America: Salif Keita e Mori Kate dalla Guinea, Ray Lema dallo Zaire, i senegalesi Toure Kunda e Youssou N’Dour e moltissimi altri godettero per alcuni anni di grande popolarità.
Va detto comunque che non era la prima volta che musicisti africani ottenevano grande successo nel… nord del mondo: basti pensare, dagli anni ’60 in poi, a una star come Miriam Makeba, o al gruppo degli Osibisa, al sassofonista Manu Dibango, al trombettista Ugh Masekela o a Fela Kuti, alfiere dell’afrobeat.

Anni ’90: il britpop

Così come erano stati frenetici gli anni ’80, gli anni ’90 furono piuttosto… sonnacchiosi. Probabilmente il fenomeno più rilevante del decennio, in Inghilterra, artisticamente e commercialmente, fu quello del britpop. Niente di clamoroso o particolarmente innovativo: gruppi come Pulp, Suede, Verve, Supergrass, Blur e oasi si limitarono a fondere strutture musicali anni ’60 e ’70, innervandolo con i nuovi suoni sviluppatosi negli anni ’80. 

Sta di fatto che, però, già alla fine del decennio si aveva già dato tutto e l’affermarsi di  nuove band come RadioheadColdplay, Placebo, Stereophonics, ecc. legittimarono la creazione di una nuova etichetta: new britpop. Ma si era già nel nuovo millennio.
Contemporaneamente ha avuto una vita breve ma intensa un altro interessenza genere che il grande critico musicale Simon Reynolds battezzò post rock. Di fatto la sua caratteristica era di proporre una musica che fondeva elementi rock con altri mutuati dal jazz e dalla musica classica contemporanea, dando vita a una proposta intensa, rarefatta e introspettiva.

Il nuovo millennio
Difficile individuare negli ultimi anni qualche filone, scuola o genere unitario che abbia caratterizzato l’inizio del nuovo secolo. Certo non sono mancati e non mancavano gruppi e musicisti interessanti come Kasabian, Artic Monkeys, Franz Ferdinand, Muse, Tortoise, Mogwai, Belle and Sebastian e i Talk Talk.

La disco music

La nascita di un «genere»
Quando è nata la disco music (o semplicemente disco)?
Difficile dirlo, probabilmente nei primi anni ’70.
In questa musica ‘nuova’, confluivano generi e stili diversi: funk, soul, influenze tropicali il pop bianco delle grandi orchestre.
Nel 1973, la Love Unlimited Orchestra di Barry White (1944 – 2003) portò al primo posto della classifica dance USA un brano intitolato ‘Love’s theme’, nel 1974 entrarono in classifica una dopo l’altra ‘Never con way goodbye’ di Gloria Gaynor a altri brani di Kool & The GangShirley & CompanyHues Corporation e di George McCrae.

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Disco: Gloria Gaynor – Never can way goodbye (1975)

Album fondamentale nella storia della disco. Il produttore Meco Monardo (che otterrà grandissimo successo con la riedizione disco della colonna sonora di ‘Star Wars’) costruì nella prima facciata un medley di tre canzoni passando senza soluzione di continuità da Honeybee alla title track quindi alla celeberrima Reach out. Il medley, che per tutto il 1975 imperversò nelle radio e sulle piste, aveva un suono in odore di Philly Sound con diverse break strumentali piazzati in punti strategici su cui potevano effettuare i messaggi. Questa operazione che riproponeva ‘già pronto’ il lavoro del dj ebbe un grande seguito e negli anni fu riutilizzata in molti altri brani di successo.

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Se Barry White può essere considerato uno dei precursori della disco music, altri produttori stavano lavorando, nello stesso periodo, in quella stessa direzione. A Philadelphia, ad esempio, Kenny Gamble e Leon Huff e rinomi di punta Billy Paul Teddy Pendergrass, gli O’jays, le Three Degrees e i Blue Notes di Harold Melvin

A Miami sempre nel 1974, raggiunse la cima delle classifiche anche Rock your baby di George McCrae, euna certa notorietà la ebbe la TK Records ed Henry Stone.
Henry Stone ebreo e bianco portò all’enorme successo i K.C. & The Sunshine Band

Nel ’76 la disco music era di quasi esclusivo appannaggio della gente di colore, solo due anni dopo, nel ’78, invece la disco dominava qualsiasi classifica, invadeva la programmazione di qualsiasi stazione radio, musicava gli spot pubblicitari e influenzava pesantemente la produzione musicale di artisti rock, come Rolling Stone, David Bowie, Rod Stewart o Santana.
Come per il jazz e per il rock, perché un fenomeno musicale di origine nera assurgesse a popolarità mondiale, era stato necessario che se ne appropriassero i musicisti bianchi, nel caso della disco, i Bee Gees.
I Bee Gees non erano nati come musicisti disco: i tre fratelli Barry, Robin e Maurice Gibb, avevano dominato le classifiche pop degli anni ’60 con vari singoli. Però quando la carriera sembrava lanciata a mille si interruppe quasi di colpo, dissidi interni portarono alla divisione del trio e ciascuno intraprese con scarsissimo successo una propria carriera. Nel ’75, alla disperata ricerca di qualcosa che riportasse in auge i tre, ci fu il miracolo. I vecchi Bee Gees melodici e languidi non c’erano più, il loro pop bianco si era trasformato in un funk di facile presa che faceva faville e il singolo Mr. Jive li riportò in vetta alle classifiche.
Era disco music, sissignori: c’erano finalmente arrivati anche i bianchi.

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Disco: Saturday night fever – O.S. (1977)

Quando si parla della colonna sonora del film disco per eccellenza, si finisce sempre per parlare dei Bee Gees, anche se nel disco non ci sono solo loro. Ma la cosa è inevitabile. I maggiori successi dell’album (Stayin’ alive, How deep is your love, Night fever, More than a woman, You should be dancin’) sono dei fratelli Gibb, e se accanto a loro vi sono anche comprimari di tutto rispetto (Kool & the Gang, K.C. & the Sunshine Band, Tavares) ad essi i tre bianchi dalle voci in falsetto lasciarono solo le briciole: Boogie shots a K.C., e soprattutto Disco inferno ai Trammps. Tutto ciò impedisce di considerare l’album una credibile antologia della disco music anche se la sua importanza nella diffusione del fenomeno fu assolutamente fondamentale.

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Ipse Dixit: «La musica quest’anno si misura in battute al minuto, fra 122 e 144: la chiamano «Disco». Sembra che tutto il mondo abbia voglia di ballare. Da Rio a Parigi, dall’Italia alla sua patria, New York City, la discoteca è diventata meta di una generazione nuova e di una vecchia che si è convertita. Disco è la parola per tutto quello che oggi significa danza. Perché disco, incredibilmente, è diventato il nuovo esperanto musicale e sta per influenzare la storia della musica a venire. Nessuna via di fuga. Disco è la nuova maniera di dimenticare l’arrivo del 2000, è la chiave per lasciarsi alle spalle gli anni ’60. E’ la gioia, un Popper per sfrecciare sui confini del totale abbandono dal controllo dei sensi. Eppure è la moda-musica più tecnologica, comandata e controllata che sia stata prodotta. Bene e male in lotta. La prima massiccia alternativa danzante dai tempi del rock’n’roll. E, infine, la più grossa operazione commerciale nel campo dello spettacolo da sempre».

(Carlo Massarini, Popster – maggio 1979)

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19) Italia: Il prog e fine anni ’70

Disco: Tito Schipa – Vivere (1937)

La canzone, ripresa negli anni ’80 da Enzo Jannacci con un’interpretazione ironica e dissacratoria, fu un grande successo del 1937 nell’interpretazione di Tito Schipa che la cantava nel film omonimo di Guido Frignone. Si tratta del canto di gioia di un innamorato abbandonato, ma… inaspettatamente felice della ritrovata libertà. Da questo punto di vista una canzone assolutamente in controtendenza con i tanti cuori spezzati delle canzoni dell’epoca, che con la sua grinta quasi sbruffonesca ben si prestava all’interpretazione dei tenori dell’epoca.

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Disco: Domenico Modugno – Nel blu dipinto di blu (1958)

Questo brano molto più noto come «Volare» trionfò a Sanremo nel 1958. Era sovversivo fin dal modo in cui Modugno lo presentò sul palco: allargando platealmente le braccia quasi a volar via con la sua canzone, in spregio alla compostezza di maniera dei cantanti dell’epoca. E poi quell’urlo liberatorio «Volareee oh oh»… Quel gesto e quel grido provocatorio un vero terremoto nella sonnacchiosa canzonetta degli anni ’50, non ancora destabilizzata dal rock’n’roll e non ancora rivitalizzata dalla canzone d’autore. Forse tre anni dopo, Celentano non avrebbe voltato le spalle al pubblico (orrore!) Cantando, sempre a Sanremo, 24.000 baci, se Modugno non avesse spalancato le braccia. Forse gli «urlatori», senza quel grido, non avrebbero capito quale sarebbe stata la loro strada.

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Anni ’60: dall’America e dall’Inghilterra arriva il rock italiano

Tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60, l’Italia conobbe un’espansione economica enorme, il cosiddetto «boom» o «miracolo economico». L’incremento vertiginoso del commercio internazionale, lo sviluppo industriale grazie alle innovazioni tecnologiche e alla disponibilità di nuove fonti di energia, furono alcuni dei fattori che portarono ad un deciso aumento del tenore di vita delle famiglie italiane con straordinarie trasformazioni negli stili di vita, nel linguaggio e nei consumi. Nasceva la televisione, nelle case facevano la loro comparsa lavatrici e frigoriferi, iniziavano ad avere enorme diffusioni le prime utilitarie (500 e 600 Fiat).
Fu in questa Italia del benessere e del consumismo che, all’inizio degli anni ’60, arrivò il rock’n’roll americano. E lo scandalo fu enorme.
Era musica che portava con sé una grande carica di ribellione, e pur in qualche modo ancora ancorati alla tradizione, i giovani cantanti ne colsero lo spirito. Non si era mai visto un cantante voltare le spalle al pubblico, ma Adriano Celentano (1938) lo faceva e il pubblico, quello adulto, si scandalizzava, così come si scandalizzava alle grintose interpretazioni di Mina (1940) e di tutti gli altri giovani cantanti detti «urlatori» (Betty Curtis, Tony Dallara, Joe Sentieri, il primo Giorgio Gaber, Little Tony) che, accanto a colleghi di grande successo ma non così trasgressivi (Gianni Morandi (1944), Rita Pavone (1945) ecc. «sparavano» la loro voce dai juke box.
Le canzoni, a partire dallo stesso modo di presentarle, volevano esprimere un «disappunto», ovviamente, delle generazioni precedenti che con quei figli ribelli si trovavano a fare i conti.
Tuttavia stiamo ancora parlando di una canzone abbastanza tradizionale nella propria struttura. Il primo deciso rinnovamento arrivò però solo pochi anni dopo, alla metà del decennio, sull’onda del beat giunto dall’Inghilterra.
Il beat italiano costituì così un grande momento di creatività e presa di coscienza. Nonostante tutti i suoi maggiori successi fossero di fatto versioni (cover) di pezzi stranieri cui era stato adattato un testo italiano (spesso assai diverso dall’originale), importante fu il fatto che questi gruppi si rendessero conto di come attraverso le canzoni si potessero veicolare idee e opinioni, non solo storie d’amore.
Tra i principali esponenti del beat italiano vi erano, curiosamente, diversi gruppi inglesi giunti sulla scia del successo dei Beatles e poi rimasti nel nostro Paese. Si chiamavano Sorrow, Renegades, Motowns o Primitives. Tra tutti, i più famosi furono i Rokes

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Disco: Rokes – ma che colpa abbiamo noi (1966)

Questa canzone è uno dei manifesti del beat italiano. Si tratta della versione italiana (firmata da Mogol) di un brano del cantautore americano Bob Lind. Offre le prime composte, educate, rivendicazioni generazionali: «Sarà una bella società/fondata sulla libertà/però spiegateci perché/se non pensiamo come voi/ci disprezzate… come mai?». E ancora: «Se noi non siamo come voi/una ragione forse c’è/e se non la sapete voi/ma che colpa abbiamo noi?». Come si può vedere, ben altra violenza, negli anni, avrebbero espresso certe rivendicazioni giovanili (si pensi al punk), ma allora, per cominciare a muovere le coscienze, andava bene ance così.

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Da quel ricchissimo panorama musicale, popolato anche da celebri band italiane come Equipe 84NomadiRibelli, Corvi, Bisonti, Delfini e molti altri, prese il via il rock italiano, negli anni quasi sempre modellato sulle influenze anglosassoni, ma a volte di una grande originalità riconosciuta anche nei paesi ove il rock era nato.

Anni ’70: prog e i suoi fratelli

Come detto, il rock italiano 8e quello dell’Europa continentale in genere) è figlio di quello anglosassone. Tuttavia particolarmente interessante fu – nei primi anni ’70 – la nostra scena progressive.
Mentre l’hard rock non fece molti proseliti tra i musicisti di casa nostra, gruppi inglesi come Genesis, yes, Jethro Tull o King Crimson, rappresentavano invece un modello per moltissime band italiane. Tuttavia, gruppi come Premiata Formerai Marconi (o PFM), Banco del Mutuo Soccorso (BMS), Osanna Orme, non si limitarono ad imitare uno stile, ma coniugarono, con una perfezione mai più raggiunta dal nostro rock, stilemi anglosassoni e tradizione musicale italiana: quella popolare e folklorica (Osanna), quella classica (le Orme e i New Trolls) e quella del melodramma e del barocco (BMS e PFM).

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Disco: PFM – Per un amico (1971)

C’è stato un momento in cui gli italiani hanno cercato una strada italiana al rock, senza limitarsi a ripetere pedissequamente i modelli anglosassoni. Splendido esempio, questi spariti ricchissimi di inventiva e creatività in cui non è difficile rintracciare momenti assolutamente italiani. Ci sono la tarantella e il melodramma, il gusto peer la melodia e tutto il nostro sole. Le costruzioni dei brani sono piuttosto complesse, hanno righe parti strumentali caratterizzate dai timbri desueti di flauto e violino, e in alcuni casi lunghe durate, eppure, all’ascolto, la musica fluisce con grande naturalezza e facilità. Un lavoro che seppe affascinare gli ascoltatori stranieri, oltre che quelli italiani, e che a distanza di decenni conserva ancora intatta la freschezza e l’originalità che hanno influenzato generazioni di musicisti a venire.

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Fine anni ’70: largo all’avanguardia

Come avvenne in tutto il mondo, anche in Italia l’avvento del punk sconvolse la scena musicale della seconda metà degli anni ’70. In molti centri nodali: a Bologna, Firenze e Pordenone  soprattutto, ma anche a Milano, Roma e Napoli conobbero una scena simile più o meno. Si misero in luce molti gruppi come: GaznevadaSkiantos, Litfiba e poi Windopen, Caffè Caracas o Tampax, stanchi di tutto ciò che il rock e la canzone d’autore avevano propinato fino a quel momento.
Tra le esperienza più valide, vanno citati i bolognesi Skiantos che furono precursori del cosiddetto genere demenziale che poggiava le proprie solide basi teoriche sulle intuizioni del giovanissimo leader Roberto «Freak» Antoni (1954 – 2014).

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Disco: Skiantos – Monotono (1978)

Dopo il debutto di «Inascoltabile», questo secondo album degli Skiantos fu un autentico manifesto contro i cantautori impegnati e il rock più stantio. Un manifesto scritto con un linguaggio volutamente «basso», fatto di rime baciate e testi stupidi che forse non volevano essere altro, o forse nascondevano molto di più. Testi che ridicolizzavano e sdrammatizzavano una musica spesso dura (punk, dopo tutto): «Le massaie fan la code/per comprare la mia broda/e per essere alla moda/io ci metto anche la soda» (Epdadone), «Io me la meno/di notte mi dimeno/domani prendo il treno/e vado fino a Sanremo» (Io me la meno), o «Se tu bruci una banca/il direttore poi si sbianca/dagli in testa anche una panka/e vedrai che poi la pianta!) (Panta Rock).

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L’autentica filosofia del punk (per non dire la dottrina politica del movimento) fu invece adottata dagli anni ’80 in poi, da band che vissero essenzialmente nelle cantine senza quasi mai assurgere a una qualche popolarità se non di nicchia (escludendo forse il solo caso degli emiliani CCCP)

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Ipse Dixit: «Decisi insieme ai mie amici, spronato dalla musica che usciva dalle cantine, di mettere in piedi una band. Il nostro modello erano gli Skiantos e i Gaznevada, mi piaceva il nonsense demenziale di Freak Antoni & Co. Rimasi rapito dalle loro idee. Personalmente fui spronato dalla scena bolognese e dal punk a mettere in piedi una band. Mi sentivo coinvolto dal messaggio crudo e diretto del punk: tutti potevano suonare anche se non sapevano suonare anche se non sapevano tenere in mano nessuno strumenti. L’importante era esporsi e metter a nudo la propria creatività.»

(Luca carboni in O. Rubini – A. Tinti «Non disperdetevi»)

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20) Cantautorato

Mentre nei primi anni ’60 con il beat prendeva forma il primo rock italiano, alcuni musicisti di estrazione più colta, venivano influenzati da un modo di scrivere canzoni che in Francia esisteva da tempo. Personaggi come George Brassens, Jacques Brel, Charles Aznavour, Gilbert Bécaud, ecc. su una musica spesso essenziale, per non dire scarna, stendevano testi che parlavano d’amore in modo non banale o si occupavano di argomenti sociali o politici come la difficoltà di trovare lavoro, l’emarginazione o la ribellione a un potere sentito come oppressivo.
Da questi esempi, giovani musicisti come: Piero Ciampi (1934 – 1980), Gino Paoli (1934), Bruno Lauzi (1937 – 2006), Sergio Endrigo (1933 – 2005), Luigi Tenco (1938 – 1967), Fabrizio De Andrè (1940 – 1999), Giorgio Gaber (1939 – 2003), Francesco Guccini (1940) o Enzo Jannacci (1935 – 2013), ognuno con la propria personalità ed elaborando un proprio stile, presero spunto per creare una proposta artistica totalmente nuova per l’Italia.
La canzone non poteva più essere un semplice momento di svago: doveva contenere un «messaggio».
Una piccola grande rivoluzione.
Tutto ciò ebbe grande successo preso i giovani che finalmente potevano riconoscersi totalmente in quello che ascoltavano come in chi lo cantava.

Impossibile stilare una classifica di merito nel ricco panorama dei cantautori italiani che, dai primi anni ’60, avrebbe vissuto una stagione d’oro per almeno due decenni. A Fabrizio de André, tuttavia, viene universalmente riconosciuta una posizione di preminenza.
Il genovese fu uno dei primi a portare la canzone d’autore in Italia e, da quel momento, ha mantenuto salda la propria popolarità grazie a una produzione che, sostenuta da rigorosi principi artistici, non ha mai conosciuto un attimo di cedimento ed è sempre stata ad altissimo livello.

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Disco: Fabrizio de Andrè – La guerra di Piero (1964)

Forse non è una delle canzoni più belle di de André, ma è certo una delle più conosciute e, a suo modo, un brano storico. E’ infatti la prima canzone il cui testo è entrato in un’antologia scolastica: un fatto impensabile solo pochi anni prima. La guerra di Piero è molto semplice con la sua struttura di ballata: un soldato in terra incontra il nemico, potrebbe sparargli ma non lo fa, dopo tutto quella persona «che aveva il suo stesso identico umore ma la divisa di un altro colore» non gli ha fatto niente. Il nemico approfitta dell’esitazione, spara e lo uccide. Questo, che fu forse uno dei primi esempi di impegno sociale in musica, divenne una sorta di inno per quanti, già allora, protestavano contro le guerre che insanguinavano il mondo.

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Ai cantautori degli anni ’60 ne seguirono molti altri dagli anni ’70 in poi. E furono tantissimi: Edoardo Bennato (1949), Claudio Lolli (1950 – 2018), Francesco de Gregori (1951), Lucio Dalla (1943 – 2013), Paolo Conte (1937). In ambito più commerciale Antonello Venditti (1949), Angelo Branduardi (1950), Ivano Fossati (1951), Enrico Ruggeri (1957) e Luca Carboni (1962). E poi Pino Daniele (1955 – 2015), Roberto Vecchioni (1943), Franco Battiato (1945)  e più ‘leggeri’ Renato Zero (1950), Gianna Nannini e Teresa de Sio.

Con un impegno sociale più marcato con riferimenti all’ideologia di sinistra: il regista Paolo PietrangeliGiovanna Marini, Ivan della Mea, Gualtiero Bertelli, Dario Fo e Pino Masi.

Oltre l’impegno sociale, abbracciando uno stile personale più facile, ma non per questo leggero, ignorando il succedersi di mode e tendenze: Pierangelo Bertoli Francesco Guccini.

Guccini non è mai stato ‘solo’ un cantautore.
Da orchestrale di balera come chitarrista del complesso ‘I Gatti’, aveva iniziato a scrivere canzoni per altri (i corregionali Nomadi e Equipe 84) e perfino musica per spot pubblicitari (Amarena Fabbri) alla pubblicazione del suo primo album ‘Folk & Beat n° 1’ dove esprimeva il suo interesse per la cultura americana. E poi via via un disco dopo l’altro per i decenni successivi.

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Disco: Francesco Guccini – Radici (1972)

Radici è da molti considerato uno degli episodi migliori di Guccini. I testi rivelano una notevole preparazione culturale, le musiche dimostrano una ricerca di soluzioni anche inusuali per questo ambito musicale, le rime esterne e interne al verso si incastrano in un prezioso lavoro d’intarsio che (miracolo!) non appare mai forzato. Eppure tutto questo sarebbe solo un esercizio di stile, un vano sfoggio accademico, se a dare spessore non ci fosse l’autentica passione popolare della Locomotiva, la malinconica poesia di Piccola città e Incontro, l’ingenuità della favola futuribile (e verrebbe da dire… suturata) di Il vecchio e il bambino… 

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Nella storia della canzone italiana, un caso assolutamente a se stante è rappresentato da Lucio Battisti (1943 – 1998). I suoi brani coi testi scritti da Mogol e poi Pasquale Panella, non esprimevano concetti particolarmente impegnati ma non si inquadrano nemmeno nel filone della canzone melodica tradizionale.

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Disco: Lucio Battisti – Pensieri e parole (1971)

In questo capolavoro assoluto, Battisti e Mogol propongono una forma di canzone totalmente inedita e mai ripetuta. Qui, due voci (entrambe di Battisti) cantano due testi distinti che continuamente si intrecciano. Il protagonista parla alla propria donna, ma in un caso esprime ciò che pensa, nell’altro ciò che dice apertamente. Le due linee, anche in contrasto, diventano complementari per darci un ritratto completo. Il testo (uno dei migliori di Mogol) è ricco di immagini dalle molteplici e mai chiarite interpretazioni, ma se il significato di alcuni passaggi può restare oscuro, chiarissimo è invece il senso generale di questa canzone che esprime in maniera assolutamente geniale la perenne lotta tra quello che si è veramente (e che si pensa) e ciò che appare (e che si dice).

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Se per tutti gli anni ’60 e ’70 la vicenda del rock italiano e quella dei cantautori avevano seguito strade assolutamente distinte, dagli anni ’80 in poi, i due percorsi iniziarono ad incrociarsi e fondersi.
I gruppi prog subirono un colpo durissimo, quasi tutti scomparvero (solo la PFM e il banco rimasero ma allontanandosi  dallo stile e dalla genialità dei primi tempi), come scomparvero i tanti gruppi pop (Pooh, Nomadi ecc.). Tuttavia in questo panorama desolante, mossero i primi passi tre personaggi che sarebbero diventati fenomeni musicali di immenso successo unendo scuola cantautorale e un inedito atteggiamento rock: ZuccheroVasco Rossi e Luciano Ligabue.

Vasco Rossi (1952) era essenzialmente un dj (in discoteca e in una delle prime radio private italiane Punto Radio) a bocca, suo paese natale.
Presso l’emittente conduceva un programma sulla disco music e uno sui cantautori italiani dove dava spazio ai giovani esordienti della zona. Nel 1978, usci il primo album «Ma cosa vuoi che sia una canzone», non fu un successo come lo furono i successivi. Vinse un premio come rivelazione dell’anno e potè partecipare al festival di Sanremo dove arrivò ultimo con la sua «Vado al massimo».

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Disco: Vasco Rossi – Vita spericolata (1983)

Vita spericolata è il brano che riassume tutta al vita artistica e personale di Vasco. E anche se la sua vita, oggi, non è più ‘spericolata, esagerata, maleducata’, all’insegna della folle velocità o delle notti in cui ‘non è mai tardi’, questo brano continua ad identificarlo. Musicalmente è una canzone tutt’altro che banale, con un bellissimo crescendo che sottolinea un testo che è un inno alla ribellione e alla trasgressione. Una ribellione e una trasgressione che da molti è stata anche travisata, ma che nello spirito di Vasco voleva essere soprattutto un ‘no’ deciso alle convenzioni e alle mode che ci rendono tutti uguali, all’ipocrisia e all’incapacità di scelte coraggiose e personali, pur se controcorrente.

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Luciano Ligabue (1960) è nato a Correggio (RE). Dopo aver svolto i lavori più disparati (il bracciante, il metalmeccanico, il ragioniere, il conduttore radiofonico, il commerciante) nel 1987, fondò insieme ad alcuni amici il gruppo degli Orazero con il quale partecipò a diversi concorsi con brani che poi avrebbe inciso, come Anime in plexiglass, Bar Mario, Figlio di un cane ecc. Nel ’88 Pierangelo Bertoli incluse proprio Sogni di rock’n’roll nell’album ‘tra me e me’.

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Disco: Ligabue – Ligabue (1990)

Spesso nell’album d’esordio finisce tutto ciò che un artista ha covato per anni. Se il lavoro di selezione tra una materiale generalmente molto vasto ed eterogeneo funziona, ci si ritrova tra le mani un lavoro come questo. Che deve molto a Springsteen nella struttura delle canzoni e nelle tematiche affrontate, ma altrettanto alla nebbia e alle campagne padane. Ballate e rock tirati che piacquero immediatamente e che fecero del disco uno dei rari debutti di grande successo del rock italiano. Dopo quel disco, Lega avrebbe regalato al proprio pubblico ancora alcuni album di alto livello dirigendosi poi gradatamente verso una proposta sempre di grande successo, quanto più avara di colpi di genio.

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Adelmo ‘Zucchero’ Fornaciari (1955) rappresenta un caso tutto particolare.
Anche lui emiliano della provincia reggiana come Ligabue, ha condotto la prima parte della propria carriera soprattutto come autore di brani molto commerciali per altri cantanti (non particolarmente famosi). In questa veste, ad esempio, nella prima metà degli anni ’80 ha partecipato 5 volte al festival di Sanremo, oltre ad altre due in prima persona (senza essere minimamente notato)

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Disco: Zucchero – Blue’s (1987)

Probabilmente il vertice artistico del bluesman emiliano sta nei tre lavori pubblicati tra gli anni ’80 e ’90 (Blue’s, Oro incenso & birra e Miserere). In particolare, Blue’s arrivava dopo un paio di singoli e un album che avevano messo il musicista sulla strada giusta. Qui c’è ancora il gusto della canzone, non solo del riff vincente che poi avrebbe preso il sopravvento nella sua produzione; c’è l’amore per la musica nera americana e per la migliore canzone italiana. E nel momento in cui questi due elementi si fondono, prendono forma piccoli capolavori come Dune mosse, Hai scelto me, Pippo, Senza una donna o Hey Man.

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Lucio Dalla (1943 – 2012) è un autentico monumento della canzone italiana. Inserito qui, dopo tre ‘rockautori’ ma non può  certo essere inserito in questa categoria, come in nessun’altra: per lui la musica era una esperienza totalizzante del tutto ignara delle categorie.
Del resto dalla aveva iniziato come clarinettista jazz, era passato alla canzone commerciale (cin poco successo), aveva esplorato i territori della canzone d’autore avvalendosi dei testi di altri prima di iniziare a fare tutto da solo regalando alla storia della canzone italiana brani indimenticabili.

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Disco: Pino Daniele – Nero a metà (1980), Vai mo’ (1981)

Questi due album non costituiscono solo la vetta artistica della lunghissima carriera di Pino Daniele, ma due dei momenti più alti dell’intera storia della canzone d’autore italiana. In entrambi la fusione tra blues, rock, jazz, tradizione partenopea, musica bianca e musica nera è assolutamente perfetta, in un equilibrio entusiasmante su cui può muoversi energia e delicatezza, sberleffo e poesia in un linguaggio vivacissimo che fonde dialetto partenopeo e slang americano. Con una ricchezza di suoni che riesce ad abbracciare tutti i colori del Golfo.

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