The Clash — Sandinista (1980)

Un monumento: tre dischi, trentasei titoli, due ore e un quarto abbondanti di musica. Ogni musica immaginabile dentro il perimetro del rock e nelle zone ad esso limitrofe e oltre ancora: reggae innanzitutto e poi funky, disco, soul, jazz, calipso, gospel, country. E rockbilly e ombre o poco più, di quel punk deragliante da cui i Clash erano partiti nel 1977 per approdare due anni dopo all’enciclopedismo di London Calling, riassunto magistrale in due LP di un quarto di secolo di rock’n’roll. Quest’ultimo triplo segnò il passo successivo, e quale passo, un balzo in avanti mozzafiato che lasciò a bocca aperta, il respiro affannoso, per la meraviglia e l’ammirazione. Sandinista è un’opera di fusione superba, un lavoro in cui il rock si rivitalizza risalendo alle sue radici più ataviche, confrontandosi e amalgamandosi con le musiche terzomondiste.

Un monumento, si è detto, e come tutti i monumenti forse un po’ ingombrante. Avrebbe giovato una maggiore concisione fossero stati due i dischi (il terzo parte alla grande ma poi si perde per strada, è dispersivo e sostanzialmente superfluo) e sarebbe stato il capolavoro degli anni Ottanta. Resta comunque uno degli album più grandi della storia della musica rock.

There is Light That Never Goes Out – The Smiths (1986)

Gli Smiths è stato un gruppo di culto nella seconda metà degli anni ottanta. Hanno saputo creare uno stile, un sentiero che negava la strada maestra, fin dalla scelta del nome (il cognome più comune tra gli inglesi, come se una nostra band decidesse di chiamarsi “I Rossi”). Copertine pallide e virate seppia, che spesso riprendevano fotogrammi di vecchi e dimenticati film; sonorità oniriche e vellutate, piacevolmente narcotizzanti, quasi oppiacee; citazioni letterarie a pioggia battente e fiori gettati al pubblico durante i concerti.

There is Light That Never Goes Out è forse la più romantica e disarmante canzone degli Smiths. Rubacchia una sequenza armonica dalla versione dei Rolling Stones di un brano di Marvin Gaye, Hitch Hike, ma è un furto dichiarato.

Hüsker Dü — Warehouse: Songs And Stories (1987)

Prima dei R.E.M., dei Sonic Youth e dei Nirvana, un altro grande gruppo del circuito alternativo a stelle e strisce fu ingaggiato da una major, per provare a dimostrare che certo rock nato e maturato nei bassifondi poteva diventare un business: si trattava di un trio originario di Minneapolis, con un nome assurdo — “ti ricordi?” in svedese — e trascorsi di rilievo nell’ambito dall’hardcore più feroce e senza compromessi, la cui leadership era divisa tra due compositori e cantanti impegnati anche alla chitarra (Bob Mould) e alla batteria (Grant Hart). Finì nel peggiore dei modi, quel sodalizio che pure aveva fruttato sette album e mezzo, di cui due doppi, in appena sei anni: con furibondi litigi e tanta amarezza. E finì, ironia del destino, poco dopo l’uscita del capolavoro che ne rappresentò lo zenit qualitativo e che quindi, suo malgrado, interpretò il ruolo un po’ sinistro dell’epitaffio.

Secondo lavoro marchiato Warner, dopo il quasi altrettanto imperdibile Candy Apple Grey, questo doppio vinile esalta la (purtroppo) definitiva maturità di una band che, lasciatasi alle spalle la lancinante crudezza degli esordi (documentata al meglio dal non meno monumentale Zen Arcade del 1984), aveva imparato a conciliare vigore punk e squisita indole pop in un songwriting di eccelsa caratura: lo fa con venti eccezionali brani — doveroso citare almeno Ice Cold Ice, la cui furibonda incisività non riesce a nascondere marcate influenze Beatles, e il più malinconico Standing In The Rain — all’insegna di un suono scabro, sfilacciato, spigoloso e distorto, splendidamente vivo e profondo anche e soprattutto dal punto di vista emotivo. Pur avendo firmato con una multinazionale, gli Hüsker Dù hanno rappresentato per la scena indie degli ’80 ciò che i Fugazi sono poi stati per quella del decennio successivo. un simbolo e un modello, attitudine oltre che musicale. E la dimostrazione inequivocabile che partendo da pochi accordi rabbiosi e suonati velocissimamente si poteva arrivare molto, molto lontano.

Peter Gabriel — So (1986)

So è il quinto album solista di Peter Gabriel ed è il primo che porta il titolo di una sillaba, i primi quattro, infatti, hanno un numero progressivo: 1, 2, 3 e 4, mentre i prossimi porteranno il titolo di Us e Up.

Non privo di successo, prima con i Genesis e poi come solista, è con questo album che Gabriel raggiunge il vertice della popolarità. Il suono moderno e i brani solidi grazie anche la maestria del co-produttore Daniel Lanois, portano il disco nelle classifiche mondiali. Brani come “Sledgehammer”, “Red Rain”, “Don’t Give Up” con Kate Bush e “In Your Eyes” con Youssou N’Dour, fanno di questo disco degli anni Ottanta uno degli album più belli dell’intera produzione inglese di quegli anni.

Peter il mastro-alchimista multiforme, non privo di coraggio, s’infila nei suoni più “rischiosi” dove la contaminazione fa da padrona. Sentimentale ed evocativo, So è la somma di ogni esperienza passata di Gabriel a cominciare dal discusso e meraviglioso “The Lamb Lies Down On Broadway” che fu la causa principale della sua dipartita dai Genesis. Gabriel attraversa due epoche rock lontane tra di loro, quella del progressive, degli anni Settanta, del rock intellettuale e profondo e quella degli anni Ottanta, tra elettronica e new wave. Le ha attraversate entrambe, e in entrambe le ha segnate con la sua musica, la sua voce, la sua personalità.

Con So inizia il lavoro di recupero e di riattualizzazione delle sonorità etniche. Il suono d’Africa insegue il sogno di trovare una nuova “Heartland” fatta di suoni, di respiri, di anime che si inseguono.

Il sogno si avvererà in seguito con la sua personale label Real Word, progetto riuscito di promozione filantropica di vari talenti ma So rimane indubbiamente l’archetipo seminale.

The Traveling Wilburys — Omonimo (1988)

Questo improvvisato quintetto nato quasi per gioco, altri non sono che Bob Dylan, Jeff Lynne, Tom Petty, Roy Orbison e George Harrison. Un disco nato per scherzo, un nome creato ad arte, ed i protagonisti che non vogliono apparire nella loro reale identità: infatti, si fanno chiamare Lucky, Nelson, Otis, Lefty e Charlie T. Junior.

Disco divertente e poco prevedibile, mette a confronto il lavoro di grandi talenti che, una volta tanto, caso abbastanza raro, funziona molto bene. L’album è bello e molto godibile, con arrangiamenti ad hoc e grandi voci, tra le più belle del panorama “rock classico”. Forse il suono della band richiamerà alla memoria stagioni passate da molte lune. Gli anni ’50 si mischiano ai rivoluzionari sixties: voci esili e coretti doo-woop insieme ad atmosfere liverpooliane. Rock, calipso, fifties, beat ed altre meraviglie è quello che questo disco propone insieme ad un moderato uso di chitarre elettriche. Vediamo le canzoni.

Handle with care è una ballata in cui i cinque Traveling Wilburys si alternano a turno, cantando ognuno una propria strofa, e già si sente la “stoffa” dei partecipanti. Dirty World è un’ampia ballata degna del miglior Bob Dylan che canta molto bene ed è accompagnato da una abile sezione di fiati. Rattled richiama certe affascinanti ballate in stile anni ’50 con ritmi e tonalità rock and roll. Last Night è piacevolissima, orecchiabile, cattura subito al primo ascolto, canta Tom Petty e Jeff Lyne lo assiste mentre Roy Orbison canta una piccola strofa con la sua voce inconfondibile. Not Alone Any More è decisamente un brano marcato Roy Orbison. Certe melodie in questo album ricordano i Beatles, non a caso vi partecipa George Harrison e poi bisogna ricordare che i Bealtles furono influenzati (e non poco) da Roy Orbison. Congratulations, tra le più belle, è un’altra melodia in stile Bob Dylan, non mancano i cori ben curati ed una steel guitar che accompagna la voce di Bob. Heading for the Light vede invece George Harrison primeggiare sugli altri in una melodia che può ricordare marginalmente i Beatles. Tra le più belle canzoni vi è sicuramente anche Margarita con una chitarra potente e la bella voce solista di Tom Petty. Tweeter and the Monkey Man invece vede nuovamente un Bob Dylan in perfetta forma cantare come soltanto lui sa fare. Anche questo brano risulta sicuramente tra le più belle ballate di questo disco che è un’autentica sorpresa. La decima canzone End of the Line, conclude l’album. E’ la degna chiusura per i Traveling Wilburys che li vede nuovamente cantare con una strofa a turno.

Purple Rain – Prince (1984)

Prince, il geniale folletto di Minneapolis, ha seguito il percorso del poeta portoghese (Pessoa), facendo dell’inquietudine la sua spinta, tra cadute e resurrezioni, provocazioni e follie, ha cambiato per sempre il destino della musica nera.

Testimone, e non solo di Geova, nell’ambiguità sessuale, in realtà mostra il suo profondo rispetto per il ruolo della donna, immaginando come sarebbe la vita di coppia se nel ruolo della ragazza ci fosse lui.

Il segreto del successo di questo brano è abbastanza semplice: si tratta di una canzone irresistibile, estremamente easy all’ascolto eppure capace nel tempo di rivelare dettagli nuovi, rimandi inusuali, spunti originali, ritornelli immortali.

Laurie Anderson — Strange Angels (1989)

Strange Angels fu fonte generosa di mille sorprese che, alcuni delusero ed altri fecero saltare di gioia. Ma cosa combinò la nostra per suscitare reazioni così contrastanti? Semplice: si è ingeniata a costruire dieci meravigliose canzoni (pop)olari.

Chi ha storto il naso ascoltando “Language is a virus” farà meglio a tapparsi ora i canali auricolari: non più il gelido (splendido) esotismo tecnologico di “Mr Heartbreak”, ma un linguaggio sonoro diverso, più caldo, immediato, che parla in egual misura all’intelligenza e al cuore. Nessun taglio netto con il passato: la Anderson di oggi (1989) è la stessa di sempre, solo discorre con maggior semplicità, con dolcezza e malinconia.

Accarezza le tradizioni musicali del centro e del sud America, le culla con sguardo ironico (ma non cinico), le riveste d’eleganza europea e ce le porge cantando con grazie inaudita. Si Laurie canta e lo fa divinamente, abbandonandosi senza freni ad un’ondata melodica irresistibile.

La voce di Laurie Anderson passeggia tranquilla, si innalza ad acuti improvvisi, si trasforma con la stessa plastica duttilità di Kate Bush, rincorre suggestioni esplicitamente pop, si insinua tra cori gospel, tra ballate caraibiche con tanto di slide guitar, saltella tra le note squillanti dei fiati, rimbalza su morbidi e armonicissimi tappeti di tastiere, per poi riposare all’ombra del canto suadente della fisarmonica.

Un disco tranquillo e sereno, che rilega nell’angolo dissonanze e squilibri tonali, senza rinunciare ad essere acuto, lucido, penetrante, convincente. E’ una Laurie Anderson musicalmente terrena, priva di intellettualismi compiaciuti, un’artista che si impadronisce del pop, lo raffina, lo purifica ma non lo raffredda in glaciali schematismi.

Non si parli allora di commercialità; si dica piuttosto della genialità, della sincerità, del divertito candore con cui Laurie Anderson ha creato il suo ennesimo capolavoro.

The Jesus And Mary Chain — Darklands (1987)

Quando ascoltai per la prima volta i “The Jesus And Mary Chain” ebbi nei loro confronti un atteggiamento estremamente conservatore, lo stesso che manifestai — lo ammetto — nel ’77 quando vennero fuori i Sex Pistols: che diamine — consideravo tra me e me — come si permettono questi sfacciati di bistrattare il vecchio rock di papà Elvis?

Ripensandoci, ho commesso lo stesso imperdonabile errore: dietro a quell’atteggiamento cinico, come sovente accade, si nasconde il vero amore e l’atteggiamento giusto, in grado di “preservare la specie”; nel senso di rock, quello genuino e privo da qualsiasi contaminazione che non abbia bisogno di scaricare le proprie sensazioni, frustrazioni, urgenze. Dietro a quel rumore apparentemente “maleducato”, dunque, ecco la stoffa, il sincero e sentito bisogno di recitare la propria parte per il gusto di conservare l’attitudine, di non snaturare il vecchio significato di una musica adulta che rifiuta la maturità; il rock’n’roll, dunque, ha ciclicamente bisogno dei suoi Sex Pistol e Jesus And Mary Chain per “strattonarsi” ancora una volta sulla strada giusta, che è poi quella sbagliata, e non è un gioco di parole. Il rock è sempre dall’altra parte della strada, il rock — anche quando si nasconde dietro forme più accessibili — è, se vissuto con coerenza, comunque “di rottura”.

A due anni da Psychocandy, nell’autunno del 1987, Jesus And Mary Chain tornano con Darklands, un lavoro più maturo, meditato, studiato; meno rumorismo, come era lecito aspettarsi, e più pop, più canzonette, ma sempre taglienti come rasoiate settantasettine. E’ l’album che mostra l’attitudine che farà dei fratelli Reid dei compositori indimenticabili.

Nei solchi (siamo nel ’87 e il CD latita ancora per poco) le zelanti sonorità vengono condite da testi tutt’altro che stupidi, materiale ben lungi dall’essere risaputo o stereotipato. In fondo, come detto all’inizio, è sempre dietro alle devianze che si nasconde la purezza d’intenti, dietro il disgusto si cela il sopraffino.

Elvis Costello — Imperial Bedroom (1982)

Il vegano Declan Patrick McManus in arte Elvis Costello è senza dubbio il personaggio chiave del pop britannico. Colui che ha restaurato la melodia a colpi di elettricità.
Imperial Bedroom è l’album che più di altri sintetizza la peculiarità della sua scrittura. La sua camera da letto mentale è quanto di meglio il pop costelliano possa offrire.
Le canzoni sono complesse, situate in atmosfere easy-jazz, tra pianto e ironia in un scenario avvolgente, non casuale, dove i brani sono un concentrato di dettagli sonori.
L’album è zeppo di punte di diamante che definisce nitidamente il suo sforzo creativo e la sua volontà di riconsegnare alla melodia una dignità spesso e volentieri calpestata da regole di mercato. I testi sono tutto meno che banali e consolatori.
Costello è uno dei pochi che si rendono conto che il pop non è un fenomeno limitato e introduce delle innovazioni di tipo strutturale e melodico. D’altronde il suo impeccabile gusto estetico ed emotivo non è altro che la regola dei corsi e ricorsi storici. E’ il rincorrersi di una musica tanto mutevole da formare, alla fine, una regola per lo sviluppo storico musicale del pop stesso.
Il disco, va ricordato, venne accolto dalla critica in maniera entusiastica mentre a livello commerciale si rivelò un flop ma poco contò per Elvis più attento alla forma d’arte che alle vendite.
Grande songwriter.

John Lee Hooker — The Healer (1989)

“L’album blues più venduto in assoluto per uno dei più grandi bluesman ancor oggi in circolazione”, recitava la pubblicità del disco a fine anni novanta, poco prima della morte avvenuta nel 2001 a ottantaquattro anni.

Il termine “blues” è probabilmente più abusato che usato in questo disco che, sinceramente ho ascoltato fino alla nausea, per la sua immediatezza, per la sua ascoltabilità ma non certamente per la sua sonorità marcatamente blues.

Con questo disco, la chitarra più corteggiata del rock insieme a Muddy Waters e anche l’unico a uscire e imporsi dal ghetto di Detroit, ritorna con un album sensazionale che riassume e condensa tutte le indicazioni e i significati della sua arte e del suo modo di intendere il blues.

Premiato con molti Grammy Awards, il primo brano omonimo del disco è “il miglior singolo del 1989”, il canto caldo e profondo di Hooker accompagnato dalla chitarra di Carlos Santana e dal suo gruppo, creano un mix esplosivo, musica caraibica arricchita dallo spirito del Mississipi. I brani che seguono presentano ancora duetti d’eccezione con Robert Cray, Canned Heat, Los Lobos, Charlie Musselwhite. Meritano una citazione a parte la sensuale I’m in the mood, in cui Hooker duetta con Bonnie Raitt, cantante e chitarrista straordinaria, l’intrigante Sally Mae con George Thorogood alla slide guitar ed infine il pezzo di chiusura No Substitute, dove un solitario Hooker evoca atmosfere che ci riportano indietro nel tempo, alla schiavitù, alla malinconia e alla sofferenza del popolo afro-americano costretto a vivere ai margini della società, ma in cerca di un riscatto attraverso l’espressione della propria cultura e della propria spiritualità.

Dentro queste superbe ballate ci sono sentimenti ed emozioni di uno stile che il tempo non potrà mai sbiadire. Questo è un album che unisce in modo molto naturale tradizione e sonorità moderne; tutto questo grazie anche al lavoro di Roy Rodger, sapiente produttore del disco che riesce a creare l’ennesimo capolavoro di John Lee Hooker.