Neil Young — On the beach (1974)

Se si escludono le estemporanee night-session di Tonight’s the nightOn the beach è il lavoro più drammatico, triste e doloroso di Young, ma anche quello meno negativo. 
Neil Young mette a nudo le sue esperienze facendone un punto di forza realizzando sei incubi agghiaccianti, tetri ed impenetrabili e due rifugi malinconici per il cuore. Storie di morte raccontate da chi è sopravvissuto, ricordi vicini e lontani che vengono rivisti con significati rivelatori. 
On the beach è una introspezione esistenziale con evidenti sottintesi psicoanalitici in un misto di irreale e quotidiano, di bisogno-abbandono, dove per la prima volta Neil Young vive la sua vita e le sue esperienze in prima persona. E’ l’impronta esasperata e vera del suo personale modo di intendere il blues: una musica cruda, chitarre sporche e lancinanti, ritmiche squadrate ed essenziali e su tutto la voce cruda di Neil che tesse frenetiche immagini surreali, suonate e interpretate esclusivamente per sé stesso.
Con queste confessioni autobiografiche On the beach cancella il passato ed esprime una nuova esigenza del musicista che artisticamente e umanamente lascia tutt’oggi stupefatti.

Janis Joplin — Pearl (1971)

Atto finale della più grande cantante blues bianco mai esistita poco prima della sua morte, avvenuta il 4 ottobre del 1970, a causa di un miscuglio di alcol e droga. Pearl è il canto del cigno di una donna sola, infelice, che canta la sua tristezza con rabbiosa determinazione. A due passi dall’autodistruzione Janis Joplin realizza a Los Angels il sogno di emulare la sua antica maestra nera, Bessie Smith. Ogni brano è un gemito, un pianto disperato dove il sesso e l’anima si uniscono per diventare emozione sconvolgente, viva, esplosiva. Non ci sono più le certezze di essere l’unica star di un gruppo di dilettanti come i Big Brothers nè il dilemma e la paura del fallimento con la degenerazione sonora di Kozmic Blues, ma c’è un’artista che sente la fine un attimo prima e vuole dare il meglio di sè per esser ricordata.

Uscito postumo, Pearl è un epitaffio alla Spoon River. Si possono rintracciare canzone dopo canzone, nascita, splendore, miseria e morte di un talento inimitabile a cui bastava soltanto un sorso di bourbon per riprendere fiato, rialzarsi dal fango e scatenare il delirio.

Police — Reggatta de Blanc (1979)

Ci sono dei dischi che più di altri rimangono nella mente perché legati a forti emozioni. Questo è uno di quelli, un disco legato soprattutto a ricordi… pensate; vent’anni e un nuovo amore… ho detto tutto, no?

Restiamo negli anniversari con questo disco quarantenne, portati bene, Reggatta de Blanc, probabilmente il loro capolavoro uscito nel ’79 dopo “Outlandos d’amour” del ’77.

All’inizio c’è il punk, anche se per sottrazione: ”Il punk mi interessa come fatto di costume, la musica invece mi fa veramente schifo”, osserva Sting mentre sfrutta lo stesso circuito di club utilizzato da Clash, Stranglers e Sex Pistol. E’ il 1977, e il fenomeno Police esplode in Inghilterra. Sting avverte che è giunto il momento per esprimere cose originali, per superare il guado in cui s’è cacciato il movimento punk, cui per altro non appartiene. Sente di avere un mucchio di cose nuove da dire. Ci crede, e con lui Stewart Copeland. Ha anche dato un calcio alla sua carriera di insegnante per dedicarsi alla musica. Scrive di getto una ventina di pezzi in vista prima dell’esordio e di questo “Raggae dei Bianchi” poi.

Sono stati definiti gli inventori del Reggae rock; il chitarrista Andy Summers, con il suo ricamo sonoro, fatto di fraseggi e accordi di ampio respiro, il bassista Gordon Sumner, in arte Sting sostenitore implacabile nonché voce principale e il batterista Stewart Copeland, con le sue alterne e geniali rullate trascinatore brano per brano.

E così, Message in a bottle, Reggatta de blanc, Deathwish, It’s al right for you, Bring on the night e Walking on the moon, solo per citare le principali e più riuscite canzoni del disco, firmano un’opera che verrà venduta e ascoltata in tutta europa e nel mondo. La caratteristica principale dell’album è la sincronicità, i brani pur andando a tempo prendono vie di fuga diverse e sempre nuove per poi fare ritorno alla base principale, alla melodia iniziale. Si è parlato di reggae perché è elemento fondamentale di tutto il disco, in tutti i brani riecheggia il sound caraibico, che diverrà il loro marchio di fabbrica in barba a tutte le contaminazioni che all’epoca venivano criticate.

I Police dovettero giustificarsi in una conferenza stampa dall’accusa di aver rubato le idee agli artisti reggae. “Sì, abbiamo preso energia dal reggae, ma gliene abbiamo anche data”, dissero.

Pere Ubu — Modern Dance (1978)

La “danza moderna” opera prima dei Pere Ubu, rimane a distanza di oltre quarant’anni un disco straordinario. Ecco sì, straordinario è l’aggettivo che più gli si addice. Straordinario il nome Pere Ubu (Ubu Roi, pièce teatrale del commediografo francese di fine ‘800 Alfred Jarry), che non diceva niente a nessuno ma aveva un bel ’suono’. Straordinaria la voce di David Thomas, un gigante con i capelli a cespuglio che cantava con un vocione da orco. Straordinari i musicisti Revenstine, un cercarumori quando l’elettronica era tutt’altro che facile, il chitarrista Herman, un trasformatore elettrico da 125 in 380volts, la sezione ritmica di Krauss alla batteria e Maimone al basso che scandiscono una musica complessa e alienata. Straordinario il suono, un turbinio di note, con scenari post-industriali, schizofrenici e avanguardistici.

Gli Ubu si auto producono quattro singoli, uno più feroce dell’altro, prima di giungere a questo favoloso esordio. Il disco è tirato in poche copie, non entra mai in classifica, ma abbaglia subito i cercatori di rock diverso. Thomas e i suoi portano il rock verso nuove frontiere, senza dimenticare l’essenzialità delle sue origini. Producono una musica con la devastante energia del punk, il ruvido calore del blues e presagi di quelli che un giorno sarebbero stati chiamati ‘paesaggi immaginari’ dell’electro-music. La voce squassata del leader e mente del gruppo David Thomas, l’anti — Sinatra per il suo ‘mal di canto’ si diverte a scrivere alla rovescia la storia della canzone tipo, e fa della sua sgraziata e disarmonica vocalità il marchio di fabbrica del gruppo.

Difficile, assurdo e insignificante catalogare il loro suono, avanguardia, jazz, rock, folk, tutto questo e il contrario, un meraviglioso variopinto minestrone musicale condito in maniera razionale da una melodia strabiliante, unica e invidiabile. Una visione ‘forse’ troppo forte e troppo ‘avanti’ per l’epoca. Un disco che resta ancora straordinario per la sua forza, ancora attuale e influente.

Mahavishnu Orchestra — The Inner Mounting Flame (1972)

In un periodo adolescenziale della mia vita fui folgorato sulla via del jazz rock (e non solo), termine non certamente ortodosso per la critica jazzistica.
Fra i tanti musicisti e gruppi in auge in quegli anni, la Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin nutriva la mia più sentita ammirazione.
Se Miles Davis inventò il jazz rock sulle onde di “Bitches Brew”, furono i suoi discepoli a dargli ordine e regola, a cominciare da John McLaughlin, che con Hammer e Cobham fondò nel 1971 la Mahavishnu Orchestra. The Inner Mounting Flame è uno dei capolavori insieme a Birds of Fire (1973) di questo genere sonoro: il jazz rock. Questo primo disco è completamente composto dal giovane trentenne chitarrista, dotato di una tecnica straordinaria affinata nei lunghi anni di apprendistato nella scena jazz blues britannica.

McLaughlin è ispirato dalla filosofia induista di Sri Chinmoy e in “The Inner Mounting Flame” né dà evidente prova, infatti, per lui la musica è solo un mezzo e non un fine. Con le sue corde non vuole suscitare effimere meraviglie ma vuole premere nel profondo dello spirito. L’album è un insieme di mistiche visioni e di furibondi eccessi di energia. I musicisti dialogano fra loro, in maniera naturale senza nessuna forzatura, seguendo una “corrente” jazzistica, che si contrappone a quella più marcata del suono rock, in cui, normalmente, la presenza di uno strumento solista tende a prevaricare sugli altri. McLaughlin non nega la possibilità anzi, spesso sembra voler letteralmente richiedere ad ogni musicista del gruppo di potersi esprimere in maniera autonoma, senza nessuna censura e con la massima libertà.

A questo, però, si contrappone al contempo una scelta di suoni e arrangiamenti spesso lontani dal jazz, che rende il gruppo artefice di quello che poi, con il passare degli anni, troverà identità propria in altri generi musicali, più ancora che nel jazz-rock o nella fusion.

Altro disco interessante è: Love Devotion Surrender (1973) insieme a Carlos Santana, un dei miei dischi preferiti, un disco che è “ode alla chitarra elettrica”, e mai come in questo caso rappresenta uno dei migliori mai suonati nella straordinaria storia del rock.

Joy Division — Unknown pleasures (1979)

La leggenda narra che due rockettari, Bernard Sumner (chitarra) e Peter Hook (basso) si incontrino a Manchester, la loro città, il 4 giugno del 1976. Spinti da una performance (che è anche il loro primo concerto) dei Sex Pistols, decidono di formare loro stessi una band.

Sull’onda di una totale e radicale rifondazione musicale, cercano e incontrano l’aspirante poeta Ian Curtis. Partono facendosi chiamare Warsaw in onore della canzone “Warszawa” di David Bowie, per poi cambiarlo in Joy Division nome usato nei campi di concentramento nazisti dove venivano internate le donne destinate a soddisfare il sinistro piacere degli ufficiali con la croce uncinata. Nell’Inghilterra dei fine anni ’70 travolta dal punk la provocazione era diventata norma, persino abitudine.

Circolavano voci strane su di loro e sul loro cantante, Ian Curtis, quello che nelle foto guardava da un’altra parte. Si muoveva in modo stranissimo e si diceva che sul palco simulasse crisi epilettiche. Si seppe poi, che epilettico lo fosse davvero.

Quest’album d’esordio aveva un che di realmente inquietante, non era teatro, non era provocazione, era pura disperazione. La copertina nera (firmata Peter Saville) ne è l’esempio.

Le canzoni sono un muro sonoro avvolgente e incalzante insieme. Sono melodie introspettive, cariche di commozione e timore. Sono canzoni “maledette”, spettrali e sofferte.

Il geniale produttore Martin Hannett riesce ad impossessarsi del gruppo fino a cambiarlo radicalmente, e anche merito suo, l’esser riuscito a scovare dalle viscere dei musicisti, quel suono oscuro, nero, a volte spaventoso, a volte straziante… Curtis canta (come Jim Morrison, che venera) testi che parlano di nevrosi, alienazione, malattia, Hannett rallenta i pezzi fino a renderli ipnotici, perversi. La batteria è signora assoluta del suono, basso e chitarra sono al suo servizio.

In poco tempo i J.D. si fanno conoscere e alimentano un vero culto. La fama cresce, e non solo in Gran Bretagna, ma il suicidio di Curtis (nel maggio 1980, a ventiquattro anni) alla vigilia dell’uscita del secondo album e del primo tour americano, mette fine alla band e la fa entrare nella leggenda nera del rock’n’roll.

Cominciano gli anni Ottanta, i Joy Division non ci saranno più, e al rock mancherà qualcosa di importante.

Traffic — John Barleycorn Must Die (1970)

Doveva essere il suo primo disco solista, ma qualcosa ha fatto cambiare idea a quel genio di Steve Winwood, rimise la denominazione “Traffic” e cambiò il nome del disco che originariamente doveva chiamarsi “Mad Shadows”

I Traffic altri non sono che un trio, uno dei migliori che la scuola del rock abbia mai sfornato: Chris Wood ai fiati, Jim Capaldi alla batteria e il polistrumentista, cantante e compositore Steve Winwood. Ad onor di cronaca è utile ricordare che Steve all’età di quindici anni, si 15! creò la fortuna degli “Spencer Davis Group”. Questo trio di folk-pop tra i più interessanti, stimolanti e creativi degli anni Settanta, segnano con questo disco uno dei capolavori del pop-rock, un viaggio introspettivo ai confini tra il vecchio e un nuovo “ritmo sonoro”.

Ad un certo punto l’enfant prodige del rock britannico, Winwood, rimane folgorato dalla leggenda di John Barleycorn, un buffo omino dalla fisionomia variabile che nella tradizione popolare viene celebrato come la personificazione simbolica del Whisky e della Birra. E’ così che nasce “John Barleycorn Must Die”, capolavoro di semplicità e raffinatezza che alterna ipnosi ritmica a intensità lirica. Questo progetto viene offerto al pubblico in un periodo che è travolto dai furori di fine anni sessanta, i fiati tenui, la composta ritmica, l’atmosfera vocale, riescono ad ammaliare e a ipnotizzare i fan. Fu proprio questa compattezza a rendere “John Barleycorn” un‘avventura tanto provocatoria quanto originale, quasi il frutto di un’operazione chirurgica a cuore aperto.

Alcuni di voi si ricorderanno della sigla radiofonica di “Per voi giovani”, il brano era Glad, il riff ipnotico rimane ancora nella memoria di molti, come il disco del resto, che col passare degli anni venne considerato una delle pietre miliari del nascente “Progressive Rock”.

La spiegazione di tanta originalità è ancora oggi probabilmente da ricercarsi nella presenza del genio bambino, primattore ma antidivo, grande vocalist e virtuoso pluristrumentista Steve Winwood.

Van Morrison — Into the Music (1979)

Con lo stesso titolo era uscita nel 1975 una biografia dell’artista. Il titolo giusto per l’album sarebbe stato “Into the Music Again”, perchè esso segna il ritorno della voglia di far musica dopo la pausa triennale e due tentativi poco felici. La voglia di cantare è anche il ritorno a vivere, come indicano i titoli di alcune canzoni: “Bright Side of the Road”, “You Make Me Feel So Free” e “And the Healing Has Begun”, in cui ad essere malato era lo spirito e la medicina è, naturalmente, la musica. La voglia di vivere emerge dalla forza della performance canora, mai così convinta e trascinante (“Divertiamoci mentre possiamo/ Non vuoi aiutarmi a cantare questa canzone/ Dal limite scuro della via/ Al lato luminoso della strada”).

Per produrre questo disco non si badò tanto alle spese, e possiamo ascoltare ottimi musicisti, fra ospiti e membri della nuova band. Innanzitutto arriva, dal giro di James Brown, il sassofonista Pee Wee Ellis, cui il precedente Schrorer non era degno neanche di lustrare le scarpe. Alla tromba il giovane Mark Isham, che negli anni successivi toccherà anche le tastiere. A suonare il violino e la viola c’è la splendida italiana Toni Marcus, il vero solista in questa occasione, che purtroppo non verrà più richiamata per gli album successivi. Si può notare come la batteria sia mixata ad un volume molto più alto che, per esempio, in Tupelo Honey: neanche Van è immune dalle mode. Gli elementi nuovi, che rimarrano a lungo, sono la musica celtica, in “Rolling Hills”, e la religione, in “Full Force Gale” (“Sono stato risollevato dal Signore”).

Con una prima facciata di canzoni veloci ed una seconda di canzoni lente, le nove canzoni (più una coda) mostrano praticamente tutte le facce, gli stili, gli atteggiamenti mentali, i trucchi ed il talento del cantante e dell’autore. Descrivere questa goduria di disco è inutile: va acquistato ad occhi chiusi.

Stormy Six — Un biglietto del tram (1975)

Anni caldi questi. Siamo a metà degli anni settanta ed esattamente nel ’75 esce questo disco che è il più bell’esempio di “musica politica” mai prodotto in Italia. L’album “Un biglietto del tram” è il primo vero album decisamente originale e con forti contenuti politici degli Stormy Six.
Forse è storia o forse è leggenda che a Milano alcune frange del “movimento” abbiano accusato gli Stormy Six di deviazionismo, la colpa: incidere dischi e, soprattutto, venderli! Questo è stato lo scotto di una notorietà costruita concerto dopo concerto, piazza dopo piazza.
La grandezza di questo “progetto” è stata nella capacità di saper raccontare attraverso le “immagini”, un’Italia in guerra.

Il disco apre con quello che diventerà uno dei loro portabandiera, la bellissima “Stalingrado” (…sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa d’ora in poi troverà Stalingrado in ogni città) canzone di forte spessore che rievoca l’omonimo assedio. “La fabbrica” (…e corre qua e là un ragazzo a dar la voce si ferma un’altra fabbrica, altre braccia vanno in croce) ci restituisce l’atmosfera di paura e fervore che precede il grande sciopero del marzo del 1943 nelle fabbriche del nord. “Arrivano gli Americani” (…arrivano gli americani, garibaldini marziani, Vergine Santa, hai sentito le nostre preghiere!) testo ironico e di facile riff che rimane nella mente, imperniato sulla “liberazione americana (?)”. “8 Settembre” (…ammazzati come cani, un cartello appeso al collo: ’PARTIGIANI’) probabilmente il brano più intenso dove i testi e la musica si intrecciano in un tutt’uno canzone carica e profonda ed espressione di una grande tragedia. “Nuvole a Vinca” (…dove sono i giovani, prigionieri in Africa, deportati a Buchenwald o sui monti, liberi…) rende palpabile la paura provocata dalla polvere che si solleva e da quella moto con sidecar che sgomma sulla piazza prima del massacro. La bellissima “Dante di Nanni” (…e cento volte l’hanno ucciso, ma tu lo puoi vedere: gira per la città, Dante di Nanni) affronta naturalmente la resistenza e diviene una figura quasi mitica, il simbolo di una battaglia che, trent’anni dopo, non doveva cessare. “Gianfranco Mattei” (…e se per di più sei un comunista ed un ebreo, dalle mani dei nazisti ti salvi il tuo Dio!) brano a ricordare tutte quelle persone che hanno speso la propria vita in cambio della nostra libertà. In “La sepoltura dei morti” (…la morte non vale nemmeno il giornale che leggi e che poi butti via) c’è l’amara riflessione di quello che è avvenuto in seguito ai fatti cruciali del ‘900 e delle sue conseguenze. “Un biglietto del tram” (…non bastava un biglietto, un biglietto del tram per tornare in piazzale Loreto?) conclude amaramente l’album.

Ora più che mai questo disco risuona attuale, in un momento che i giovani sembrano incapaci di stare a sentire un ragionamento politico per più di cinque minuti, sarebbe l’occasione giusta per ascoltare questo disco. Disco che, sia chiaro pur essendo “politico” nei suoi testi, rimane musicalmente parlando ricco di spunti e di idee. Gli strumenti creano un tappeto sonoro che non fa da supporto ma, è parte integrante alle parole stesse, un disco quindi dove anche la Musica ha un valore non secondario.

Francesco De Gregori — Rimmel (1975)

Alla metà degli anni settanta, la nuova canzone italiana, e non solo quella, stava cercando un’identità appropriata alle nuove forme di espressione della realtà. Francesco De Gregori con Rimmel disse la sua, in maniera splendida, in un disco che rimane ancora oggi avvincente. Fu il risultato di uno “stato di grazia”, di un momento di irripetibile ispirazione creativa e soprattutto un attestato di amore nei confronti delle possibilità offerte dallo “strumento canzone”. La cosa che più colpisce è la ricchezza delle idee, ogni canzone di quel disco è un capitolo a sé.
Pablo, uno slogan politico con una bella estensione vocale, Buonanotte fiorellino, classico ermetismo “De Gregoriano”, Rimmel, relazione amorosa in forma letteraria, Piano bar, svagata e pungente (la leggenda vuole dedicata a A. Venditti), Quattro cani, brano di lunare solitudine, Piccola mela, classico “italianfolk”, Pezzi di vetro, se fosse un film sarebbe “il mistero fuggente”.
Molte di queste canzoni sfuggono ad una facile classificazione, hanno il dono dell’ambiguità, delle volte talmente audaci da creare non pochi problemi al cantautore, (venne osteggiato dalla sinistra, che chiedeva una maggiore chiarezza nelle sue parole), ma a parte le polemiche, fu un disco molto amato dalla gente e presumibilmente dallo stesso De Gregori.
Le canzoni, che sono dei “capitoli” di un immaginario romanzo di vita, sommate alla voce, che è talmente personale, armonizzata e poco convenzionale, fa di questo disco uno dei più ricchi e creativi della canzone italiana.
De Gregori pur essendo un dylaniano convinto, era uno di quelli che avevano perfettamente compreso come la canzone italiana, per quanto d’autore, avesse bisogno, per evolversi, di uno stretto rapporto con la tradizione. Rimmel è inteso come “manifesto” di tale progetto: canzoni “dentro” la realtà ma senza rinunciare alle sue prerogative, alla possibilità di costruire qualcosa che ancora non esisteva.