Il rock chicano di Ritchie Valens

Il 13 maggio 1941 a Pacoima, un sobborgo d’immigrati perduto nella periferia della grande Los Angeles nasce Richard Steven Valenzuela, in arte Ritchie Valens, il primo grande alfiere del “rock chicano”. Ritchie Valens ha registrato numerosi successi durante la sua breve carriera, in particolare il successo del 1958 “La Bamba”. Valens morì all’età di 17 anni in un incidente aereo con i colleghi musicisti Buddy Holly e J.P. “The Big Bopper” Richardson il 3 febbraio 1959. La tragedia fu successivamente immortalata come “il giorno in cui la musica morì” nella canzone “American Pie”.
Valens fece un’audizione per l’etichetta discografica di Keane nel maggio 1958 e in breve tempo fece uscire il suo primo singolo su Del-Fi. La canzone “Come On, Let’s Go” divenne un piccolo successo. Keane ha anche incoraggiato il giovane cantante ad abbreviare il suo cognome in “Valens” per renderlo più adatto alla radio. Valens ebbe un successo ancora maggiore con il suo secondo singolo, che conteneva “La Bamba” e “Donna”. “Donna”, un’ode alla sua fidanzata del liceo Donna Ludwig, divenne una ballata popolare, arrivando infine al secondo posto nelle classifiche pop. Sebbene non sia stato un grande successo, “La Bamba” è stata una canzone rivoluzionaria che fondeva elementi di una melodia popolare messicana tradizionale con il rock and roll. Valens non era di madrelingua spagnola e doveva essere istruito sulla canzone tutta in lingua spagnola. Il 2 febbraio 1959, il tour Winter Dance Party suonò al Surf Ballroom di Clear Lake, Iowa. Il tour doveva svolgersi il giorno successivo a Moorhead, Minnesota. Holly aveva noleggiato un aereo per arrivarci dopo aver avuto problemi con il suo autobus turistico. Secondo alcuni rapporti, Valens ha vinto un posto sull’aereo lanciando una moneta con il chitarrista di Holly, Tommy Allsup. Richardson ha anche scambiato il posto con un altro passeggero originale, Waylon Jennings. Quando morì, a soli 17 anni, Valens lasciò alcune registrazioni. Il suo primo album omonimo fu pubblicato poco dopo l’incidente e andò bene nelle classifiche. Una registrazione dal vivo è stata successivamente pubblicata come Ritchie Valens in Concert alla Pacoima Junior High. La storia della sua vita è stata immortalata sul grande schermo nel film La Bamba del 1987, che ha introdotto una nuova generazione di appassionati di musica al pionieristico artista latinoamericano. Lou Diamond Phillips ha interpretato Valens e la band Los Lobos ha registrato la colonna sonora.

Jack Bruce – Out Of The Storm (1974)

Capita di tanto in tanto di ascoltare vecchi album di cui si aveva perso le tracce. Quando succede e quando il disco comunica qualcosa non appena comincia a suonare, quando uno si sente partecipe delle emozioni dell’artista, anche dopo aver ascoltato un solo brano hai la certezza che tutto il resto del disco sarà buono. Ho ascoltato per la prima volta Out Of The Storm di Jack Bruce e mentre la sua voce intonava le prime note di Pieces of Mind mi sono reso conto di fare la conoscenza dei più bei dischi di una certa vena del rock blues inglese al pari di Rock Bottom di Wyatt. Le esperienze, l’ispirazione, la scelta intelligente di certe note, la voce robusta e ricca di soul, rivela che Jack è un musicista di una categoria a parte, quella che Bob Fripp chiamò dei “maestri”. Dopo l’esperienza abbastanza monolitica di Wes, Bruce e Laing, Jack ha lavorato per un anno alla realizzazione di questo album con il solo aiuto di Steve Hunter (abilmente a tutte le chitarre) e Jim Keltner alla batteria meno in tre brani dove suona Jim Gordon. Il resto degli strumenti li suona tutti lui come tutte sue sono le voci e qui si potrebbe aprire un discorso sul cantante perché Bruce dimostra di essere in possesso di una tecnica fuori dal comune trovando timbri diversi per i diversi stati di animo e organizzando cori con armonie inconsuete. Le parole sono di Pete Brown il poeta cantante che aveva già collaborato coi Cream e la sua poesia sensoriale fatta di allusioni malinconiche si sposa benissimo con la musica che, ora è ritmata con anticipazioni jazzistiche, ora va oltre l’esperienza dei suoni contemporanei. Scozzese, connazionale di Van Morrison e come lui con un’anima piena di soul da cantare, Bruce è un musicista profondo e Out Of The Storm ne è la prova evidente. 

The Umbrellas – Fairweather Friend (2024)

Nel loro secondo album Fairweather Friend, il gruppo indie pop The Umbrellas diventa più sofisticato dal punto di vista sonoro ed emotivamente complesso senza perdere nulla della gioia eruttiva che ha caratterizzato il loro sound fino ad ora. La band mantiene la propria linea di base di pop melodico ad alta energia con note prese da alcuni degli artisti migliori e più intenzionalmente oscurati del genere, ma si espande anche oltre con arrangiamenti più complessi, temi lirici sempre più diretti e canzoni che esplorano nuove idee.

Il gruppo e ben al di fuori dei modelli indie standard. Il disco è una raccolta di dieci canzoni che in qualche modo riescono a trasmettere divertimento, eccitazione e speranza, e allo stesso tempo danno uguale spazio a sentimenti di scoraggiamento e noia di stanchezza del mondo. È musica che non è affatto semplice a nessun livello e rappresenta un’evoluzione audace per la band.

Dopo i primi brani degli Umbrellas pubblicati nel loro album di debutto omonimo, pubblicato nel 2021, molti cambiamenti sono avvenuti. Laddove le prime canzoni della band avevano un’affascinante ingenuità, alcuni anni di tour costanti hanno aumentato sia la sicurezza che il lirismo schietto, facendo degli Umbrellas una realtà ormai affermata.

Ascolta i dieci brani dell’intero disco

Muddy Waters: il “padre” del Blues “elettrico”

Il 30 aprile 1983, a Westmont, Illinois, USA, si spegneva il grande cantautore e chitarrista Muddy Waters. Nato nel 1913 a Rolling Fork, Mississippi, USA, il suo vero nome era McKinley Morganfield. Il soprannome “Muddy Waters” gli fu dato dalla nonna durante l’infanzia, riflettendo la sua abitudine di giocare nel fango lungo le rive del Mississippi. All’età di nove anni iniziò a suonare l’armonica e a sedici anni la chitarra. Continuando a lavorare nei campi di cotone, iniziò a guadagnare suonando nelle feste locali. Prese lezioni di musica dal chitarrista e violinista Son Slims, con il quale fece anche la sua prima registrazione. Per un periodo gestì un Juke Joint, un locale improvvisato per il gioco d’azzardo e la musica dal vivo, prima di trasferirsi a Chicago, dove il blues stava emergendo come genere predominante. Lavorando come autista, si esibiva nei locali serali, venendo notato e ottenendo il suo primo contratto discografico con la Chess Records. Formò una band eccezionale con Little Walter all’armonica, Jimmie Rogers alla chitarra, Elga Edmonds alla batteria e Otis Spann al piano. Con questa formazione registrò vari dischi e ottenne successo negli anni ’50. Il 1958 segnò il suo successo in Europa con un tour in Inghilterra, dove il suo blues elettrico fece sensazione. Successivamente, registrò album in collaborazione con icone del blues come Howlin’ Wolf, Little Walter, Rory Gallagher, Bo Diddley e Steve Winwood. Il suo stile di blues elettrico, definito “urbano”, influenzò generazioni di musicisti e fu considerato un “anello mancante” tra il Delta Blues e il Rock’n’Roll. Ricevette numerosi Grammy Awards e Blues Music Awards, fu inserito nella Rock’n’Roll Hall of Fame e nella Blues Foundation Hall Of Fame. Nel 1994 gli fu dedicato un francobollo americano da 29 centesimi. Considerato il “padre del Chicago Blues” e uno degli artisti più influenti del XX secolo, la sua vita fu raccontata nel film “Cadillac Records” del 2008.

Steve Wynn — Kerosene Man (1990)

Il primo album solista di Steve Wynn, leader dei disciolti Dream Syndicate, è un disco vario, denso di umori, con qualche puntata personale verso sonorità più ricercate dove si dimostra autore con meno rabbia del rocker dei Syndicate, ma con più idee, con un uso degli strumenti vario, mille sfaccettature nella musica, tanto che il disco mostra di avere diverse cose che si riescono a scoprire solo dopo vari ascolti.
L’album rivela un Wynn musicista più maturo, non più il ragazzo dai suoni acidi ma un scrittore ed interprete rock di vero talento. I suoni del disco richiamano in parte i Syndicate e in parte fanno apparire un lato nuovo, quello del balladeer notturno.
E’ chiaro che Wynn con questo lavoro ha voluto prendere le distanze dal vecchio suono a cui ci aveva abituato, cercando soluzioni più vicine al cantautorato statunitense che al puro rock di matrice chitarristica che aveva alimentato sino a qualche mese fa la sua carriera. Wynn si dimostra songwriter, autore di canzoni, nella più classica tradizione dello storyteller.
Nel contempo l’album dichiara una maturità di arrangiamenti che fa uscire l’autore dal suo usuale schema (chitarra-basso-batteria e, eventualmente, tastiere) per ampliare il suono con archi e fiati, adeguando le sonorità a quello che è l’ambito più ovvio del cantautore.
Kerosene Man è dunque un bel disco, dove la ballata regna sovrana, dove la voce carismatica del leader raggiunge toni talvolta confidenziali, dove sax e violino entrano di forza in un tessuto che prima non li contemplava. Il suono va dal rock alla canzone notturna, ma il disco mantiene una vena costante per tutto il lavoro, vena di elevato livello, sia professionale che artistico.

6Th Avenue Heartache – The Wallflowers (1996)

I Wallflowers sono la creatura di Jakob Dylan figlio di Robert Zimmerman e di Sara Lownds. Anche lui cantante, Jakob scrisse questo brano nel 1988 quando aveva solo 18 anni. Viveva a New York City, vicino alla Sixth Avenue, dopo aver abbandonato la Parsons School of Design, dove studiava pittura, dopo sole due settimane. Nonostante fosse il figlio di Bob Dylan, era solo, viveva da solo e trascorreva molto tempo vagando per la città e riflettendo sulla sua vita. Il testo riflette le immagini della città e la sua ricerca per trovare la sua strada. Fu allora che decise di fare della musica la sua vita, o almeno di provarci. Compito riuscito o almeno in parte perché essere figlio del Vate, scrivere canzoni e fare musica, è compito improbo come scalare l’Everest con le infradito.
6Th Avenue Heartache resta comunque un bel brano, molto godibile, probabilmente uno dei loro migliori.

Laurie Anderson

Originaria di Chicago, L.A. nasce nel 1947 e già da giovane, studia e poi insegna storia, arte, scultura, a New York. Scrive pezzi teatrali e articoli per riviste sempre sull’arte. Poco dopo, i suoi interessi si spostano verso la fotografia, la musica d’avanguardia e l’uso dell’elettronica applicata all’arte. Volendo etichettare la sua musica, cosa per altro non facile, si può dire che L.A. crea una fusione tra avanguardia colta e tecnopop.

I suoi dischi.

Il suo primo album BIG SCIENCE raggiunge il secondo posto della classifica Inglese e la fa conoscere al grande pubblico. La critica specializzata non le risparmia parole di stima, e così anche il pubblico.

Il secondo disco MISTER HEARTBREAK dell’84 raccoglie brani scartati in precedenza da BIG SCIENCE e altro materiale, ispirato da Shakespeare a Burroughs. Questo disco rimane sempre sull’onda del primo, con brani di ottimo livello, ma non lo eguaglia.

UNITED STATES LIVE dell’85 è una raccolta di cinque dischi, e fa parte di un progetto a cui la Anderson lavora da molti anni. L’opera della durata di ben sette ore riscuote unanime tributo soprattutto nelle sue performance dal vivo, anche se è una vera sfida all’ascoltatore più paziente.

Altro capitolo a parte è invece HOME OF BRAVE dell’86, qui l’Anderson si adopera per un progetto filmografico con inserti d’animazione e vari “esercizi” elettronici, sarà pubblicato come colonna sonora dell’omonimo film.

STRANGE ANGELS chiude in bellezza gli anni ottanta, il disco dell’89 è il quinto capitolo musicale, e secondo suo capolavoro. Per la prima volta Laurie usa la voce in modo puro, senza trattamenti elettronici. Il disco è molto piacevole, con sonorità dolci ed evanescenti, strizzando un pò l’occhio a futuristiche pop songs e ballate agrodolci. Senza però mai cadere nella pur minima commercialità.

I lavori successivi BRIGHT RED ’94 e THE UGLY ONE WITHE JEWELS ’95, perdono di spessore non interessano più come i precedenti, non perchè siano privi di “originalità ma perchè in realtà questi dischi sono poco suonati e molto parlati, ci sono tanti monologhi e poca musica. Questo se forse ad una certa critica pseudointellettuale può interessare, all’ascoltatore medio crea solo noia.

L’ultima sua opera targata anno 2001 è LIFE ON A STRING, poco si discosta, musicalmente parlando dagli anni novanta, nel senso che, ormai lo sperimentalismo è quasi fine a se stesso, e quindi di creativo c’è né ben poco. Siamo lontani dai quei due capolavori che sono BIG SCIENCE e STRANGE ANGELS.

In conclusione, la grandezza di questa musicista, “musa elettronica” sta nell’avere creato uno stile molto personale. Lo studiare la voce connessa allo strumento, l’usare il violino in modo solo a lei congeniale, “arrangiare” ritmi scoordinati e poco sinuosi, l’uso del sinth e d’altri strumenti come mai usati prima, fa di lei una musicista unica e geniale.

Popular Music (20. Cantautorato)

PrefazioneIndice

Mentre nei primi anni ’60 con il beat prendeva forma il primo rock italiano, alcuni musicisti di estrazione più colta, venivano influenzati da un modo di scrivere canzoni che in Francia esisteva da tempo. Personaggi come George Brassens, Jacques Brel, Charles Aznavour, Gilbert Bécaud, ecc. su una musica spesso essenziale, per non dire scarna, stendevano testi che parlavano d’amore in modo non banale o si occupavano di argomenti sociali o politici come la difficoltà di trovare lavoro, l’emarginazione o la ribellione a un potere sentito come oppressivo.
Da questi esempi, giovani musicisti come: Piero Ciampi (1934 – 1980), Gino Paoli (1934), Bruno Lauzi (1937 – 2006), Sergio Endrigo (1933 – 2005), Luigi Tenco (1938 – 1967), Fabrizio De Andrè (1940 – 1999), Giorgio Gaber (1939 – 2003), Francesco Guccini (1940) o Enzo Jannacci (1935 – 2013), ognuno con la propria personalità ed elaborando un proprio stile, presero spunto per creare una proposta artistica totalmente nuova per l’Italia.
La canzone non poteva più essere un semplice momento di svago: doveva contenere un «messaggio».
Una piccola grande rivoluzione.
Tutto ciò ebbe grande successo preso i giovani che finalmente potevano riconoscersi totalmente in quello che ascoltavano come in chi lo cantava.

Impossibile stilare una classifica di merito nel ricco panorama dei cantautori italiani che, dai primi anni ’60, avrebbe vissuto una stagione d’oro per almeno due decenni. A Fabrizio de André, tuttavia, viene universalmente riconosciuta una posizione di preminenza.
Il genovese fu uno dei primi a portare la canzone d’autore in Italia e, da quel momento, ha mantenuto salda la propria popolarità grazie a una produzione che, sostenuta da rigorosi principi artistici, non ha mai conosciuto un attimo di cedimento ed è sempre stata ad altissimo livello.

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Disco: Fabrizio de Andrè – La guerra di Piero (1964)

Forse non è una delle canzoni più belle di de André, ma è certo una delle più conosciute e, a suo modo, un brano storico. E’ infatti la prima canzone il cui testo è entrato in un’antologia scolastica: un fatto impensabile solo pochi anni prima. La guerra di Piero è molto semplice con la sua struttura di ballata: un soldato in terra incontra il nemico, potrebbe sparargli ma non lo fa, dopo tutto quella persona «che aveva il suo stesso identico umore ma la divisa di un altro colore» non gli ha fatto niente. Il nemico approfitta dell’esitazione, spara e lo uccide. Questo, che fu forse uno dei primi esempi di impegno sociale in musica, divenne una sorta di inno per quanti, già allora, protestavano contro le guerre che insanguinavano il mondo.

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Ai cantautori degli anni ’60 ne seguirono molti altri dagli anni ’70 in poi. E furono tantissimi: Edoardo Bennato (1949), Claudio Lolli (1950 – 2018), Francesco de Gregori (1951), Lucio Dalla (1943 – 2013), Paolo Conte (1937). In ambito più commerciale Antonello Venditti (1949), Angelo Branduardi (1950), Ivano Fossati (1951), Enrico Ruggeri (1957) e Luca Carboni (1962). E poi Pino Daniele (1955 – 2015), Roberto Vecchioni (1943), Franco Battiato (1945 – 2021)  e più ‘leggeri’ Renato Zero (1950), Gianna Nannini e Teresa de Sio.

Con un impegno sociale più marcato con riferimenti all’ideologia di sinistra: il regista Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini, Ivan della Mea, Gualtiero Bertelli, Dario Fo e Pino Masi.

Oltre l’impegno sociale, abbracciando uno stile personale più facile, ma non per questo leggero, ignorando il succedersi di mode e tendenze: Pierangelo Bertoli e Francesco Guccini.

Guccini non è mai stato ‘solo’ un cantautore.
Da orchestrale di balera come chitarrista del complesso ‘I Gatti’, aveva iniziato a scrivere canzoni per altri (i corregionali Nomadi e Equipe 84) e perfino musica per spot pubblicitari (Amarena Fabbri) alla pubblicazione del suo primo album ‘Folk & Beat n° 1’ dove esprimeva il suo interesse per la cultura americana. E poi via via un disco dopo l’altro per i decenni successivi.

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Disco: Francesco Guccini – Radici (1972)

Radici è da molti considerato uno degli episodi migliori di Guccini. I testi rivelano una notevole preparazione culturale, le musiche dimostrano una ricerca di soluzioni anche inusuali per questo ambito musicale, le rime esterne e interne al verso si incastrano in un prezioso lavoro d’intarsio che (miracolo!) non appare mai forzato. Eppure tutto questo sarebbe solo un esercizio di stile, un vano sfoggio accademico, se a dare spessore non ci fosse l’autentica passione popolare della Locomotiva, la malinconica poesia di Piccola città e Incontro, l’ingenuità della favola futuribile (e verrebbe da dire… suturata) di Il vecchio e il bambino… 

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Nella storia della canzone italiana, un caso assolutamente a se stante è rappresentato da Lucio Battisti (1943 – 1998). I suoi brani coi testi scritti da Mogol e poi Pasquale Panella, non esprimevano concetti particolarmente impegnati ma non si inquadrano nemmeno nel filone della canzone melodica tradizionale.

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Disco: Lucio Battisti – Pensieri e parole (1971)

In questo capolavoro assoluto, Battisti e Mogol propongono una forma di canzone totalmente inedita e mai ripetuta. Qui, due voci (entrambe di Battisti) cantano due testi distinti che continuamente si intrecciano. Il protagonista parla alla propria donna, ma in un caso esprime ciò che pensa, nell’altro ciò che dice apertamente. Le due linee, anche in contrasto, diventano complementari per darci un ritratto completo. Il testo (uno dei migliori di Mogol) è ricco di immagini dalle molteplici e mai chiarite interpretazioni, ma se il significato di alcuni passaggi può restare oscuro, chiarissimo è invece il senso generale di questa canzone che esprime in maniera assolutamente geniale la perenne lotta tra quello che si è veramente (e che si pensa) e ciò che appare (e che si dice).

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Se per tutti gli anni ’60 e ’70 la vicenda del rock italiano e quella dei cantautori avevano seguito strade assolutamente distinte, dagli anni ’80 in poi, i due percorsi iniziarono ad incrociarsi e fondersi.
I gruppi prog subirono un colpo durissimo, quasi tutti scomparvero (solo la PFM e il banco rimasero ma allontanandosi  dallo stile e dalla genialità dei primi tempi), come scomparvero i tanti gruppi pop (Pooh, Nomadi ecc.). Tuttavia in questo panorama desolante, mossero i primi passi tre personaggi che sarebbero diventati fenomeni musicali di immenso successo unendo scuola cantautorale e un inedito atteggiamento rock: Zucchero, Vasco Rossi e Luciano Ligabue.

Vasco Rossi (1952) era essenzialmente un dj (in discoteca e in una delle prime radio private italiane Punto Radio) a bocca, suo paese natale.
Presso l’emittente conduceva un programma sulla disco music e uno sui cantautori italiani dove dava spazio ai giovani esordienti della zona. Nel 1978, usci il primo album «Ma cosa vuoi che sia una canzone», non fu un successo come lo furono i successivi. Vinse un premio come rivelazione dell’anno e potè partecipare al festival di Sanremo dove arrivò ultimo con la sua «Vado al massimo».

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Disco: Vasco Rossi – Vita spericolata (1983)

Vita spericolata è il brano che riassume tutta al vita artistica e personale di Vasco. E anche se la sua vita, oggi, non è più ‘spericolata, esagerata, maleducata’, all’insegna della folle velocità o delle notti in cui ‘non è mai tardi’, questo brano continua ad identificarlo. Musicalmente è una canzone tutt’altro che banale, con un bellissimo crescendo che sottolinea un testo che è un inno alla ribellione e alla trasgressione. Una ribellione e una trasgressione che da molti è stata anche travisata, ma che nello spirito di Vasco voleva essere soprattutto un ‘no’ deciso alle convenzioni e alle mode che ci rendono tutti uguali, all’ipocrisia e all’incapacità di scelte coraggiose e personali, pur se controcorrente.

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Luciano Ligabue (1960) è nato a Correggio (RE). Dopo aver svolto i lavori più disparati (il bracciante, il metalmeccanico, il ragioniere, il conduttore radiofonico, il commerciante) nel 1987, fondò insieme ad alcuni amici il gruppo degli Orazero con il quale partecipò a diversi concorsi con brani che poi avrebbe inciso, come Anime in plexiglass, Bar Mario, Figlio di un cane ecc. Nel ’88 Pierangelo Bertoli incluse proprio Sogni di rock’n’roll nell’album ‘tra me e me’.

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Disco: Ligabue – Ligabue (1990)

Spesso nell’album d’esordio finisce tutto ciò che un artista ha covato per anni. Se il lavoro di selezione tra una materiale generalmente molto vasto ed eterogeneo funziona, ci si ritrova tra le mani un lavoro come questo. Che deve molto a Springsteen nella struttura delle canzoni e nelle tematiche affrontate, ma altrettanto alla nebbia e alle campagne padane. Ballate e rock tirati che piacquero immediatamente e che fecero del disco uno dei rari debutti di grande successo del rock italiano. Dopo quel disco, Lega avrebbe regalato al proprio pubblico ancora alcuni album di alto livello dirigendosi poi gradatamente verso una proposta sempre di grande successo, quanto più avara di colpi di genio.

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Adelmo ‘Zucchero’ Fornaciari (1955) rappresenta un caso tutto particolare.
Anche lui emiliano della provincia reggiana come Ligabue, ha condotto la prima parte della propria carriera soprattutto come autore di brani molto commerciali per altri cantanti (non particolarmente famosi). In questa veste, ad esempio, nella prima metà degli anni ’80 ha partecipato 5 volte al festival di Sanremo, oltre ad altre due in prima persona (senza essere minimamente notato)

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Disco: Zucchero – Blue’s (1987)

Probabilmente il vertice artistico del bluesman emiliano sta nei tre lavori pubblicati tra gli anni ’80 e ’90 (Blue’s, Oro incenso & birra e Miserere). In particolare, Blue’s arrivava dopo un paio di singoli e un album che avevano messo il musicista sulla strada giusta. Qui c’è ancora il gusto della canzone, non solo del riff vincente che poi avrebbe preso il sopravvento nella sua produzione; c’è l’amore per la musica nera americana e per la migliore canzone italiana. E nel momento in cui questi due elementi si fondono, prendono forma piccoli capolavori come Dune mosse, Hai scelto me, Pippo, Senza una donna o Hey Man.

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Lucio Dalla (1943 – 2012) è un autentico monumento della canzone italiana. Inserito qui, dopo tre ‘rockautori’ ma non può  certo essere inserito in questa categoria, come in nessun’altra: per lui la musica era una esperienza totalizzante del tutto ignara delle categorie.
Del resto dalla aveva iniziato come clarinettista jazz, era passato alla canzone commerciale (cin poco successo), aveva esplorato i territori della canzone d’autore avvalendosi dei testi di altri prima di iniziare a fare tutto da solo regalando alla storia della canzone italiana brani indimenticabili.

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Disco: Pino Daniele – Nero a metà (1980), Vai mo’ (1981)

Questi due album non costituiscono solo la vetta artistica della lunghissima carriera di Pino Daniele, ma due dei momenti più alti dell’intera storia della canzone d’autore italiana. In entrambi la fusione tra blues, rock, jazz, tradizione partenopea, musica bianca e musica nera è assolutamente perfetta, in un equilibrio entusiasmante su cui può muoversi energia e delicatezza, sberleffo e poesia in un linguaggio vivacissimo che fonde dialetto partenopeo e slang americano. Con una ricchezza di suoni che riesce ad abbracciare tutti i colori del Golfo.

(Fine)

Neil Young — On the beach (1974)

Se si escludono le estemporanee night-session di Tonight’s the nightOn the beach è il lavoro più drammatico, triste e doloroso di Young, ma anche quello meno negativo. 
Neil Young mette a nudo le sue esperienze facendone un punto di forza realizzando sei incubi agghiaccianti, tetri ed impenetrabili e due rifugi malinconici per il cuore. Storie di morte raccontate da chi è sopravvissuto, ricordi vicini e lontani che vengono rivisti con significati rivelatori. 
On the beach è una introspezione esistenziale con evidenti sottintesi psicoanalitici in un misto di irreale e quotidiano, di bisogno-abbandono, dove per la prima volta Neil Young vive la sua vita e le sue esperienze in prima persona. E’ l’impronta esasperata e vera del suo personale modo di intendere il blues: una musica cruda, chitarre sporche e lancinanti, ritmiche squadrate ed essenziali e su tutto la voce cruda di Neil che tesse frenetiche immagini surreali, suonate e interpretate esclusivamente per sé stesso.
Con queste confessioni autobiografiche On the beach cancella il passato ed esprime una nuova esigenza del musicista che artisticamente e umanamente lascia tutt’oggi stupefatti.

The Maureens – Everyone Smiles (2024)

Anche dopo decenni, la musica degli anni sessanta ha rifiutato di morire. E’ stata attaccata dalle grandi band rock degli anni settanta, dal glamour-pop degli anni ottanta, dal grunge degli anni novanta, dal rap degli anni duemila e nonostante tutto rimane sempre a galla.

Formatosi nel 2012, il quartetto dei The Maureens sono originari dai Paesi Bassi e Everyone Smiles è il loro quarto album che stride parecchio di tutto quello che hanno rappresentato i meravigliosi anni sessanta.

Everyone Smiles, è di facile ascolto, nel senso che le canzoni sono intonate, le armonie sono piacevoli ed è semplicemente prodotto meravigliosamente. Si potrebbe confondere il disco come una musica di sottofondo, perfetta per il lavoro ma invece i Maureen sono più di un suono superficiale, questi ragazzi vanno oltre, riflettendo seriamente in ogni loro canzone.

Ogni traccia è come una piccola avventura e i Maureen offrono un bel viaggio lungo una perfetta e moderna corsia degli anni Sessanta…

Ascolta i tredici brani dell’intero disco