Tom Waits

“Dentro un orologio rotto – Spruzzi il vino – Con tutti i cani randagi – Niente taxi, preferiamo camminare – Stretto insieme ai Cani Randagi sulle soglie delle case – Perché anch’io sono un Cane Randagio.”

Tom Waits è un caso particolare, la sua musica, il suo rapporto con il rock è particolare. Pensa al jazz, canta con la voce roca e profonda, nulla a che fare con quelle dei suoi contemporanei. Suona il pianoforte in compagnia di un contrabbasso senza seguire nessuna mitologia, ostentando percorsi devianti, sporchi e clandestini, straordinariamente fuori moda, fuori tempo, slegato da qualsiasi corrente. Vocalist sbilenco e rauco, Waits canta il suo universo sentimentale fatto di relazioni e disagi della vita urbana americana, creando un sound musicale unico, fatto di percussioni metalliche e vari strumenti a volte ‘raccolti per strada’. La peculiarità delle sue opere è l’accostamento di stili e radici diversissimi tra loro, la sua musica crea una propria e ampia geografia: dal blues al rock, dal country alla canzone d’autore, dal gospel all’espressionismo, dai standard jazzistici ai ritmi afrocubaneggianti, tutto questo fa di lui un musicista eclettico, da brividi intensi. Il suo linguaggio da poeta notturno è crudo e diretto, a volte cinico, i suoi testi sono fiabe adulte popolate di puttane e naufraghi del Grande Sogno Americano. Ma, nonostante tutto questo, le canzoni sono paradossalmente un inno al romanticismo.

Della sua discografia che ha dato alla luce una ventina di dischi, vi consiglio: “Rain Dogs” (1985) e “Frank’s Wild Years” (1987), due dischi che probabilmente, sono tra i momenti migliori della sua produzione. Concludo questa breve descrizione su Waits invitandovi ad ascoltare questa selezione la cui scelta non è stata facile. Ho optato per questa decina di brani che personalmente ritengo più rappresentativi o per lo meno più emozionali, dove il nostro ci fa sentire la sua musica libera, la sua pittura sonora, la sua poesia ritmica, il suo rumore romantico, la sua frenesia del corpo e dell’anima.

Popular Music (Prefazione)

Prefazione

Questo è il primo post di una serie che avrà come comune denominatore la «Storia della Musica». Titolo assai azzardato per un tema di così grande spessore ma, senza incantarvi, in realtà è un’escursione molto semplice e soprattutto personale, in quanto darà visione e quindi informazione SOLO su storie, musicisti, dischi e quant’altro che hanno avuto importanza per il sottoscritto. 

Quindi, qualsiasi appassionato troverà facilmente lacune, artisti trascurati e approfondimenti mancati, d’altra parte, una trattazione del genere non può e non vuole essere esaustiva: chi fosse interessato a un «qualcosa» in particolare (quella di un musicista, quella di un genere o uno stile, quella di un’epoca) su di essa troverà sicuramente il modo di approfondire. Internet, le librerie e le biblioteche sono li per quello.

Perché Popular Music? Perché è musica popolare.
Distinguendo la musica tutta in due macro filoni, musica leggera o popolare, comprendendo in questo brutto termine rock, jazz, blues, folk, etc. e musica colta, tutto il resto, i post qui pubblicati daranno visibilità al primo filone.

Per prendere informazioni «tecniche» su nomi, date etc. mi sono avvalso di materiale cartaceo e digitale, lasciando poi ampio spazio alla mia personale conoscenza, valutazione e critica.

Lo scopo unico di questa pubblicazione è dare a chi è interessato alla cultura musicale, un piccolo supporto, non  solo nozionistico.

Classifica musicale 2022

Anche quest’anno, come da consuetudine, condivido la mia classifica personale dei dischi ascoltati.
Questo 2022 è stato caratterizzato soprattutto da una grande mole di dischi pubblicati, sicuramente, per quanto mi riguarda, un buon 25/30% in più rispetto agli anni scorsi. Probabilmente il covid ha fatto la sua parte.

La musica africana di cui sono particolarmente attratto, è presente con ben otto dischi: Noori & his Dorpa Band, Baba Sissoko & J.P. Rykiel, M.S. Diabate, L. Kouyaté, Vieux Farka Touré et Khruangbin (con due dischi), Mdou Moctar, Mamadou Diabate e Nduduzo Makhathini.

Tre nuove scoperte: Jake Xerxes Fussell, Grace Cummings e Dean Owens.

Molti conosciuti: Tedeschi Trucks Band, Taj Mahal & Ry Cooder, Van Morrison, Big Thief e Anaïs Mitchell (ma anche tanti altri).

Un solo italiano: Massimo Zamboni con un bel disco, profondo e di forte impatto emotivo.

Un nuovo gruppo ma con musicisti ultra conosciuti come i The Smile.

In questa classifica ne sono presenti un centinaio, tutti dischi che ho ascoltato molte volte e con attenzione. Le mie recensioni sono poche, una cinquina, tutte le altre sono di recensori presenti su riviste, blog e siti di informazione musicale.

Su ‘artesuono‘ la classifica completa con le relative recensioni.

Qui sotto un brano di Grace Cummings, attrice di teatro e cantautrice Australiana di Melbourne.

R.E.M. — Out Of Time (1991)

Rapidi Movimenti Oculari, l’indice fisiologico che rivela lo svolgersi del sogno all’interno del sonno. La musica rock per i R.E.M. è appunto uno stato ipnotico da sogno, dove i musicisti analizzano le varie visioni musicali, quelle che hanno mosso la loro sensibilità creativa (Doors, Byrds, Velvet), sovrapponendole poi con innovazioni e ulteriori appendici.

Abbandonata la neo-psichedelia del giro californiano, i R.E.M. realizzano l’opera più alta del nuovo sound metropolitano, dove la band vive queste composizioni in prima persona con una formula che si rivelerà imbattibile.

Questi quattro protagonisti da Athens, Georgia, fanno il “salto” grazie a un album che parla d’amore. Ne parla alla maniera loro, senza nulla concedere al luogo comune e senza spiegare: più che di un’analisi o un racconto, si tratta di un’evocazione di sentimenti e stati d’animo, dalla solitudine all’euforia, senza dimenticare l’ossessione, abilmente dissimulata in Losing My Religion, quello che diventerà il loro successo più grande. 

Out Of Time è per molti versi l’album più eccentrico della band meno eccentrica tra quelle di popolarità mondiale: è l’album meno chitarristico della loro intera discografia e quello in cui Michael Stipe canta meno (in due brani la voce principale è di Mike Pierson dei B-52’s). E’ l’album in cui il suono è più vario, forse più colorato (Shiny Happy People), ed è per certi versi un album di transizione, il perno centrale di una trilogia che con Green (1988) e il magnifico Automatic For the People (1992), si avvicina sempre più ai sapori del country (sempre alla R.E.M., naturalmente) e che rimarrà per sempre l’essenza di ciò che questa band rappresenta per la storia del rock’n’roll.

Out Of Time è una sorta d’immaginazione intensa e indisponente dove un country-rock acido e sognante scivola dentro canzoni dalle melodie stellari e arrangiamenti molto innovativi. E’ l’autocelebrazione di un nuovo mito, perché d’ora in avanti i Sognatori vivranno il paradosso e l’ebbrezza di essere una cult-band per la moltitudine. Anticonvenzionali sino in fondo.

Ivan della Mea

La nave dei folli

Ivan Della Mea ha cominciato a scrivere versi e musiche nel 1959, con La grande e la piccola violenza, che terminò solo tre anni dopo.

Nel giugno del 1966 ha inciso un disco, Io so che un giorno, che rimane probabilmente la cosa migliore mai scritta in Italia nel campo del canto politico. Ci si trova dentro, genialmente, quella componente del fare politica che è la memoria storica e di classe e c’è la rilettura – dopo 20 anni – di una fase cruciale della storia operaia italiana, fatta dal di dentro delle cose e delle esperienze; ci sono gli anni ’50 con le loro storie private e pubbliche, coi loro drammi individuali e collettivi. Le ballate in questo disco sono tra i più riusciti tentativi, nella cultura italiana contemporanea, di fare storia di classe ed espressività popolare insieme.

Dopo un lungo silenzio, nel ’70 Ivan Della Mea ritorna con il disco Il rosso è diventato giallo. Molte cose sono cambiate nella sua storia privata e politica e ce n’è il segno preciso e puntuale in queste canzoni. La rottura con il PCI, il rapporto difficile, precario e alterno con le organizzazioni rivoluzionarie e, ancora, con il PCI; la moglie, la figlia, Gianni Bosio, Franco Solinas; poi il privato che tende a prevalere e a diventare intimismo, e addirittura il “dubbio di Dio” che riaffiora.

Dopo La balorda e Se qualcuno ti fa morto entrambi del ’72, esce Ringhiera nel ’74. La storia è quella di un vecchio militante comunista, segretario di una sezione di Milano, che ripercorre e narra le tappe della propria vita dalla gioventù alla guerra di Spagna, alla Resistenza, al dopoguerra.

Personalmente lo ritengo il disco migliore di Ivan Della Mea, anche se è certamente il più “complesso”. Il modo in cui in Ringhiera affronta i “problemi” è indice di una nuova maturità artistica e culturale di cui la La nave dei folli ne è la conferma. E’ una ballata lunga che presenta molti elementi di novità; innanzitutto nella struttura musicale che non trova alcun riferimento nei precedenti lavori di Della Mea; si tratta di un’unica, compatta frase melodica dai toni costantemente alti, quasi senza soluzione di continuità. Una canzone da cantare tutta d’un fiato premendo sulle parole, inseguendo le strofe, gridando sul ritornello. La novità maggiore della ballata si avverte sul piano letterario ed è rappresentata dal carattere insieme metaforico e realistico di questa Nave dei folli: la rivendicazione del diritto alla fantasia, non di evasione né di fuga, ma di concreta e fondata volontà di utopia, una richiesta di trasformazione creativa del reale.

Altri dischi sono stati incisi nella sua carriera cantautorale, ma pochi sono riusciti ad eguagliare questi pubblicati, se così possiamo definire: prima fase politico sociale personale.

A margine, ricordo di aver cantato decine e decine di volte La nave dei folli, non ricordando sempre tutte le parole del testo, ma poi poco importava. Mi sono molto emozionato dopo l’ennesimo ascolto di questo grande brano, potente e dal grande phatos, chissà se l’amico Pierpaolo, ricorda ancora gli accordi con la chitarra?

John Lee Hooker — The Healer (1989)

“L’album blues più venduto in assoluto per uno dei più grandi bluesman ancor oggi in circolazione”, recitava la pubblicità del disco a fine anni novanta, poco prima della morte avvenuta nel 2001 a ottantaquattro anni.

Il termine “blues” è probabilmente più abusato che usato in questo disco che, sinceramente ho ascoltato fino alla nausea, per la sua immediatezza, per la sua ascoltabilità ma non certamente per la sua sonorità marcatamente blues.

Con questo disco, la chitarra più corteggiata del rock insieme a Muddy Waters e anche l’unico a uscire e imporsi dal ghetto di Detroit, ritorna con un album sensazionale che riassume e condensa tutte le indicazioni e i significati della sua arte e del suo modo di intendere il blues.

Premiato con molti Grammy Awards, il primo brano omonimo del disco è “il miglior singolo del 1989”, il canto caldo e profondo di Hooker accompagnato dalla chitarra di Carlos Santana e dal suo gruppo, creano un mix esplosivo, musica caraibica arricchita dallo spirito del Mississipi. I brani che seguono presentano ancora duetti d’eccezione con Robert Cray, Canned Heat, Los Lobos, Charlie Musselwhite. Meritano una citazione a parte la sensuale I’m in the mood, in cui Hooker duetta con Bonnie Raitt, cantante e chitarrista straordinaria, l’intrigante Sally Mae con George Thorogood alla slide guitar ed infine il pezzo di chiusura No Substitute, dove un solitario Hooker evoca atmosfere che ci riportano indietro nel tempo, alla schiavitù, alla malinconia e alla sofferenza del popolo afro-americano costretto a vivere ai margini della società, ma in cerca di un riscatto attraverso l’espressione della propria cultura e della propria spiritualità.

Dentro queste superbe ballate ci sono sentimenti ed emozioni di uno stile che il tempo non potrà mai sbiadire. Questo è un album che unisce in modo molto naturale tradizione e sonorità moderne; tutto questo grazie anche al lavoro di Roy Rodger, sapiente produttore del disco che riesce a creare l’ennesimo capolavoro di John Lee Hooker.

Roy Orbison — Mystery Girl (1989)

Roy Orbison, il baritono del rock and roll, l’anima più sensibile. Mystery Girl è l’album postumo di un rocker senza tempo che, dopo timidi tentativi, aveva ritrovato la passione e la voglia di riannodare il filo del suo passato.

Aiutato da un pugno di amici musicisti devoti e libero dai vincoli dello show-biz più equivoco, Orbison torna ad occuparsi di sentimenti e storie per cuori spezzati con una grazia musicale immune da qualsiasi fattore temporale. E’ un superbo e commovente autoritratto dalle caratteristiche rimaste ferme come per incanto a venti anni prima: rockabilly languido e romantico, melodie toccanti e piene di calore e la solita potente voce che non riesce a invecchiare. Dopo tragedie familiari e difficoltà superate a denti stretti, Roy portava sempre occhialoni scuri per nascondere la tristezza e guardare il mondo in grigio.

Mystery Girl è una via d’uscita certa dove ci sono finalmente i colori vividi di una seconda giovinezza. La sua musica possiede nuovamente quella magica eleganza dell’anima capace di stordire ad ogni ascolto. Solo i capricci di un cuore anzitempo stanco di lottare l’hanno potuta fermare.

Imagine – John Lennon #10/10

Dati

Imagine è un brano musicale di John Lennon pubblicato nel 1971.

Imagine viene spesso citata come uno dei brani musicali più belli della storia della musica rock; la rivista Rolling Stone, per esempio, l’ha posizionata al terzo posto nella classifica dei migliori brani musicali di tutti i tempi.

Lennon compose Imagine all’inizio del 1971, su un pianoforte Steinway nella sua camera da letto a Tittenhurst Park, la sua residenza in stile Tudor a Ascot, Berkshire, Inghilterra, dove lui e Yoko Ono nell’estate del 1969 prendono la residenza. Proprio Yoko gli fornisce l’ispirazione, pubblicando qualche anno prima Grapefruit: A Book of Instructions and Drawings, completamente basato sull’immaginazione.

Quando scrive Imagine, Lennon non si rende minimamente conto dell’enorme potenziale della canzone. Realizza un disco demo in cui la presenta come il rovescio della medaglia di Gimme Some Truth, la sua invettiva politica.

Del senso e della potenza di Imagine ha parlato anche suo figlio Julian: «Non vuole imporre a tutti una sua idea. Non si tratta di religione o di politica, ma più semplicemente di umanità e di vita. Ognuno di noi si augura quello che lui sta cantando e credo che questo sia il motivo per cui ancora oggi la canzone è così importante».

Pensiero

Concludo questa lista di dieci canzoni, a cui sono particolarmente legato, perché “legate” da un filo comune: il ricordo.

Infatti ricordo benissimo la prima volta che l’ascoltai alla radio, credo fosse anche la prima volta che fu trasmessa. Era una mattina dell’inverno 1971/72, stavo facendo i compiti perché andavo a scuola di pomeriggio (all’epoca erano normali i doppi turni a causa del sovrannumero) facevo la seconda media.

Il pianoforte fu un colpo al cuore, poche note, toccate piano, pianissimo. Ogni toccata di tasto creava un’emozione indescrivibile, la sua voce lieve, profonda, intersecata al suono, accapponava la pelle. Grande canzone quindi.

Quando un brano, e non sono poi tantissimi, dopo decenni e decenni (Image ha oltre cinquant’anni), dopo una miriade di ascolti riesce ancora ad emozionare non può essere altro che un capolavoro.
Ogni altra parola su una canzone come questa risulterebbe sicuramente superflua.
Questo è un brano che va semplicemente ascoltato e niente più.



Janis Joplin — Pearl (1971)

Atto finale della più grande cantante blues bianco mai esistita poco prima della sua morte, avvenuta il 4 ottobre del 1970, a causa di un miscuglio di alcol e droga. Pearl è il canto del cigno di una donna sola, infelice, che canta la sua tristezza con rabbiosa determinazione. A due passi dall’autodistruzione Janis Joplin realizza a Los Angels il sogno di emulare la sua antica maestra nera, Bessie Smith. Ogni brano è un gemito, un pianto disperato dove il sesso e l’anima si uniscono per diventare emozione sconvolgente, viva, esplosiva. Non ci sono più le certezze di essere l’unica star di un gruppo di dilettanti come i Big Brothers nè il dilemma e la paura del fallimento con la degenerazione sonora di Kozmic Blues, ma c’è un’artista che sente la fine un attimo prima e vuole dare il meglio di sè per esser ricordata.

Uscito postumo, Pearl è un epitaffio alla Spoon River. Si possono rintracciare canzone dopo canzone, nascita, splendore, miseria e morte di un talento inimitabile a cui bastava soltanto un sorso di bourbon per riprendere fiato, rialzarsi dal fango e scatenare il delirio.

Pearl Jam

E’ una bella storia, quella dei Pearl Jam, una storia che si è fatta ancora più interessante nel corso degli anni.

Ammetto di non averla compresa fin da principio. Quando avevo messo le mani su Ten, alla fine del 1992, infatuato di quella musica fantastica che le riviste specializzate chiamavano grunge. Delle varie bands che hanno fatto la storia della scena di Seattle nei primi anni Novanta, i Pearl Jam restano l’unica ancora in attività. Una ragione c’è. I Pearl Jam hanno un carattere completamente diverso dalle altre formazioni: musicalmente classificabili come un tentativo di rileggere l’antico, il “classic rock”, in particolare nelle varianti folk e hard core, si distinguono per aver un rapporto aperto con il proprio pubblico, cercando un’alleanza profonda, fondata su lealtà, onestà, rispetto e passione, per molti versi simile a quella che caratterizza gli irlandesi U2.

I Pearl Jam non evitano sguardi introspettivi, ma non si piangono addosso come la spirale autodistruttiva di “Seattle”, anzi. Scrutano l’America, scavano nei mali del Grande Paese, trattano temi come i senzatetto e le armi, arrivando a sfidare l’amministrazione Bush. Lottano contro l’industria discografica, contro il monopolio della vendita dei biglietti, per la libertà della musica, degli artisti e degli stessi giovani.

Sarebbe comunque riduttivo ricondurre le ragioni del loro successo a un’irriducibile integrità. Qualcosa di più profondo e misterioso vive nella loro musica, nell’alchimia tra la voce baritonale di Eddie Vedder e un rock chitarristico in bilico tra passato e presente. La voce di Eddie Vedder conquista molti, grazie a un timbro scuro che comunica emozioni sincere, commozione, rabbia, forza e debolezza, una voce capace di esaltarsi nei momenti più rock e di toccare le corde emotive nelle lente e inesorabili ballate.

Qual è la vera essenza del rock’n’roll? Ognuno può dare una risposta diversa: spesso si utilizzano parole differenti che finiscono per essere sinonimi di una medesima idea madre. Per me la vera essenza del rock’n’roll è la semplicità. Alla luce soprattutto degli ultimi lavori discografici, sento di poter azzardare che la storia dei Pearl Jam sia stata dettata da una costante ricerca della semplicità, non solo per quanto riguarda gli aspetti meramente stilistici e tecnici. Semplicità per esprimere il proprio pensiero. Credo sia inutile chiedersi se siano il più importante gruppo dei nostri tempi o solamente un’onesta rock band come tante. A me i Pearl Jam ricordano cos’è il rock’n’roll, e perché non posso proprio farne a meno.

Neville Brothers — Yellow Moon (1989)

Assieme a Brothers Keeper è senz’altro Yellow Moon il disco più importante della produzione musicale dei Neville Brothers.

Seguendo coerentemente una linea di sviluppo artistico che dall’iniziale influenza del cajun e della tradizione creola di New Orleans li ha portati man mano ad una miscela sempre più veriegata di stili, i Neville Brothers arrivano alla tappa più importante del loro lunghissimo cammino discografico iniziato negli anni sessanta come Meters.

Aaron, Ivan e compagnia decidono di estendere lo spettro di interessi e di indirizzi musicali con un prezioso lavoro di ripescaggi colti tra rock, gospel, musica etnica ed altri ricordi.

E’ un clima magico in uno swingante caleidoscopio di cori e controcanti fatti ad incastri che si muovono nella corrente più nobile della black music e del pop adulto. Yellow Moon è musica che scorre via corposa, ricca di contrasti tematici e sonori tra nero e bianco, dosata fino all’ultima nota dalla produzione attentissima di Daniel Lanois. Ombre fusion, forti richiami soul, accenni rock, ballate di grande respiro sono l’elegia più alta di una musica padrona di se stessa fino al punto di essere considerata estranea.

Massimo Bubola — Amore e Guerra (1996)

In Amore e Guerra, Massimo Bubola unisce passato e futuro, infatti, reinterpreta alcuni brani che ha scritto per altri con rinnovata energia ed intensità e dà a queste canzoni una veste completamente rinnovata.

Bubola mostra le sue qualità di interprete, la sua è una rilettura lucida e piena di forza. Le canzoni vengono da diciotto anni (dal 1978) di scrittura conto terzi, ed escono rivestite a nuovo.
Un disco come questo copre un buco nella discografia italiana.

La musica è sana, americana nello spirito, italiana nel corpo; non c’è, in queste canzoni, la solita italietta canora, la solita tiritera melodica, bensì un suono robusto e vibrante, che ci scuote e ci porta a gustare il disco, a risentirlo ed a risentirlo in continuità.

Chitarre elettriche, batteria dura, basso pulsante, ogni tanto una fisarmonica o un violino al servizio di qualche aria folkeggiante. Musica dolce e forte al tempo stesso: Bubola è un cavallo di razza che sa dosare sentimenti ed immagini.

Le canzoni…
“Fiume Sand Creek”: La canzone si libera fiera, ben lontana dai vincoli che le aveva imposto De Andrè: un mandolino di sapore ‘cooderiano’ stempera le sue note, la voce preme e la canzone, rabbiosa, ci avvolge in un crescendo continuo. Grande inizio.

“Un angelo in meno”: è l’unica canzone inedita, lenta basata su un bel gioco di chitarre, ha un testo forte, teso come una lama ed una melodia di ampio respiro.

“Johnny lo zingaro”: vecchia conoscenza con ‘The Gang’, è riletta con molta forza, chitarre quasi hard, batteria possente, ed una atmosfera piena di phatos, le danno una nuova vitalità.

“Andrea”: è una boccata d’aria fresca, il violino danza subito e la melodia cattura immediatamente. La rilettura è geniale, con un sapore country folk che dà alla composizione una nuova veste, invenzioni tex mex, brillanti e piene di allegria, fanno da contrasto col testo amaro, che racconta di coraggio e morte.

“Marabel”: è in chiave rock, chitarre aperte, batteria che preme, basso che pulsa. Massimo canta con rabbia.

“Spezzacuori”: ha un altro aspetto, l’atmosfera è quasi western, con la chitarra molto evocativa e la voce grave a raccontare. La canzone sembra uscita da un vecchio vinile di Johnny Cash.

“Sally”: è una delle cose più belle che Massimo ha regalato a Fabrizio de Andrè, ma questa versione supera di gran lunga l’originale. L’idea è quella di una chitarra liquida (c’è sempre Cooder nei dintorni) che segue, pari passo, la melodia. Grande brano.

“Don Raffaè”: è una delle colonne portanti di “Nuvole” di De Andrè, grande brano, grandissimo, eppure Massimo, ancora una volta, riesce a sorprenderci . Bluesato, leggermente jazzato, notturno e fumoso, Don Raffaè mantiene la sua lucida attualità sociale ma cambia radicalmente il suo vestito.

“Eurialo e Niso”: tra le più riuscite del disco, la struttura rimane, ma la musica è più forte con la chitarra a l’armonica che rafforzano la tematica ormai country.

“Camice rosse”: canzone di cui Massimo va molto fiero, che però la Mannoia non ha saputo rendere al meglio. Un tessuto armonico di sapore tex mex, ben evidenziato dall’uso continuo della fisarmonica. Una melodia intensa, condita con mille sapori, vibrante e piena di vitalità.

“Tre rose”, tenue ed interiore, e “Quello che non ho”, molto elettrica decisa. Concludono un album di grande spessore, molto poco italiano, in cui il senso della vera musica rock viene espresso appieno.

Bubola ha fatto il suo capolavoro.

Thunder Road – Bruce Springsteen #9/10

Dati

Thunder Road è uscita nel 1975 come prima traccia dell’album Born to Run.

Uno degli aneddoti racconta della prima volta che Bruce Springsteen suonò una versione embrionale di “Thunder Road“, nel febbraio del 1975, con la E Street Band. La folla applaudì il riff di apertura come se avesse conosciuto il brano da sempre. La melodia veniva suonata dal sax di Clarence Clemons, ma non si faceva ancora riferimento a “thunder road“. Questa prima versione si intitolava “Wings for Wheels“, nome che in realtà, come riferisce il batterista Max Weinberg, si riferiva all’intero album.

Di questo brano esistono diverse revisioni, compreso il nome di donna che è cambiato più volte (da Angelina a Christina), prima che si decidesse per Mary. Anche la parte armonica dell’introduzione ha subito numerose modifiche: dalla versione suonata al sax ed una versione alternativa con chitarra acustica realizzata dallo stesso Springsteen.

Nel 2021, dopo 46 anni, Bruce Springsteen cambia una parola nel brano. La modifica è nel primo verso della canzone, ‘The screen door slams, Mary’s dress waves’, .’Waves’ diventa ‘Sways’.

E’ stato risolto così l’ultimo rompicapo del web dopo che la giornalista Maggie Haberman del New York Times aveva twittato una foto di una foto di un palcoscenico vuoto di ‘Springsteen on Broadway’ (una serie di concerti tenuti dal Boss tra il 2017 e il 2018 in due teatri di New York). Nella didascalia si leggeva ‘A screen door slams, Mary’s dress sways’. Immediatamente la rete si è rivoltata contro affermando che la parola giusta è ‘waves’ e non ‘sways’.

In entrambi i casi significa ondeggiare, ma wave è riferito alle onde, in questo caso si tratta di un vestito. La versione con ‘waves’ compare anche sul sito ufficiale di Springsteen, ma lo stesso usa ‘sways’ nella sua autobiografia ‘Born to Run’.

Pensiero

Nel 1975 avevo sedici anni e Springsteen dieci di più. Quando ascoltai Born to Run per la prima volta, fu un fulmine a ciel sereno. Rimasi incantato dall’energia di questo giovane musicista, dal sax di Clarence Clemons (morto nel 2011) e dal sound che riusciva ad esprimere con estrema semplicità.
Subito la critica gridò alla nuova rivelazione rock e non ebbe torto.

Da quel momento non lo persi più di vista, pardon udito, e di dischi meravigliosi è riuscito a donarmene in grande quantità. Le canzoni di una bellezza disarmante sono tantissime e trovarne una è un’impresa impensabile e proprio per questo ho scelto la prima del suo primo (non di pubblicazione) disco che mi fece conoscerlo.

A differenza di altri brani di altri musicisti descritti qui sul blog, a cui sono legato per particolari motivi, in questo caso sono più legato all’intero disco, un disco legato ad una età in piena crescita musicale (e non solo) dove (anche) il boss ha avuto un ruolo determinante nella mia formazione “sonora”.



Tom Waits — Rain Dogs (1985

“Preferisco un fallimento alle mie condizioni che un successo alle condizione altrui.”

Tom Waits è tra i miei songwriter preferiti e Rain Dogs è un capolavoro che non può mancare tra gli album preferiti della nostra collezione discografica.

“I cani che vagano per le strade alla ricerca della propria casa, dopo che la pioggia ha annullato gli odori” sembrano uomini che cercano il senso vero della vita, dopo che il destino ha cambiato di colpo tutto quello in cui credevano.

Rain Dogs è l’atto centrale della “trilogia” di Frank”, la logica conseguenza di “Swordfishtrombones” del 1983 che proseguirà poi con “Frank Wild Years” nel 1987. In questo disco si concentrano tutti gli elementi della mirabolante foga da ‘intrattenitore’ di Waits. Tom non è solo ‘song-writing’ mutuato al jazz notturno, ma è “suono & significato”, un ‘estratto’ direttamente dalle fogne di New York. La sua musica è un mix impressionante di blues, free-jazz, tanghi, polke, atmosfere orientaleggianti e ritmi tribali che non si escludono vicendevolmente, ma si completano magistralmente.

“La mia vita è come quella di un vigile urbano: momenti di noia rotti da momenti di puro terrore.”

Il suono è reso attraverso un complicato armamentario di percussioni fatte in casa, parole di lacerante poesia, senso dello spazio ridotto alla visuale di un treno diretto al centro della città. E’ una dissacrante panoramica sulle culture deboli.

Con questo intruglio passionale e drammatico fatto di brevi capitoli, Waits scuote la retorica effimera del rock e fa dell’andare fuori tempo e della sua voce roca al limite della stonatura una nuova norma da seguire. Waits smantella tutte le sue memorie stilistiche offrendoci una visione etilica e grottesca di un’umanità rassegnata e senza più sogni da inseguire.

Rain Dogs è la metafora di un mondo di sconfitti che masticano lentamente il sapore di questa dimensione, senza illusioni. La più grande Opera buffa da parte del Bukovski del nuovo blues, un americano che odia l’’America’ chiamato Tom Waits.

Un genio al suo massimo.

Police — Reggatta de Blanc (1979)

Ci sono dei dischi che più di altri rimangono nella mente perché legati a forti emozioni. Questo è uno di quelli, un disco legato soprattutto a ricordi… pensate; vent’anni e un nuovo amore… ho detto tutto, no?

Restiamo negli anniversari con questo disco quarantenne, portati bene, Reggatta de Blanc, probabilmente il loro capolavoro uscito nel ’79 dopo “Outlandos d’amour” del ’77.

All’inizio c’è il punk, anche se per sottrazione: ”Il punk mi interessa come fatto di costume, la musica invece mi fa veramente schifo”, osserva Sting mentre sfrutta lo stesso circuito di club utilizzato da Clash, Stranglers e Sex Pistol. E’ il 1977, e il fenomeno Police esplode in Inghilterra. Sting avverte che è giunto il momento per esprimere cose originali, per superare il guado in cui s’è cacciato il movimento punk, cui per altro non appartiene. Sente di avere un mucchio di cose nuove da dire. Ci crede, e con lui Stewart Copeland. Ha anche dato un calcio alla sua carriera di insegnante per dedicarsi alla musica. Scrive di getto una ventina di pezzi in vista prima dell’esordio e di questo “Raggae dei Bianchi” poi.

Sono stati definiti gli inventori del Reggae rock; il chitarrista Andy Summers, con il suo ricamo sonoro, fatto di fraseggi e accordi di ampio respiro, il bassista Gordon Sumner, in arte Sting sostenitore implacabile nonché voce principale e il batterista Stewart Copeland, con le sue alterne e geniali rullate trascinatore brano per brano.

E così, Message in a bottle, Reggatta de blanc, Deathwish, It’s al right for you, Bring on the night e Walking on the moon, solo per citare le principali e più riuscite canzoni del disco, firmano un’opera che verrà venduta e ascoltata in tutta europa e nel mondo. La caratteristica principale dell’album è la sincronicità, i brani pur andando a tempo prendono vie di fuga diverse e sempre nuove per poi fare ritorno alla base principale, alla melodia iniziale. Si è parlato di reggae perché è elemento fondamentale di tutto il disco, in tutti i brani riecheggia il sound caraibico, che diverrà il loro marchio di fabbrica in barba a tutte le contaminazioni che all’epoca venivano criticate.

I Police dovettero giustificarsi in una conferenza stampa dall’accusa di aver rubato le idee agli artisti reggae. “Sì, abbiamo preso energia dal reggae, ma gliene abbiamo anche data”, dissero.

Janis Joplin

Janis Joplin è nata nella piccola città di Port Arthur, in Texas, dove scopre fin da piccola la cultura degli afroamericani, il jazz e soprattutto il blues, cercando di copiare gli stili di Bessie Smith, Odetta, Leadbelly. Iniziò a cantare nelle coffe-houses delle piccole città del Texas, per approdare quindi in California, innamorata della poesia beat e pronta a sperimentare tutto in prima persona, compresi alcol e droghe. Un suo amico texano tale Chet Helms, le offre un’audizione per una band poco conosciuta, Big Brother & The Holding Company. E’ l’inizio di un percorso che porta la band prima a registrare un primo album, poi a salire sul palco di Monterey e quindi a ottenere un contratto con la Columbia per la registrazione del vero album d’esordio, Chip Thrills, nel ’68. Il successo fu immediato e travolgente ma non servì a modificare lo stile di vita eccessivo della cantante. La droga e le forti tensioni portarono allo scioglimento della band pochi mesi dopo la pubblicazione del disco. Janis si rimise subito al lavoro con un nuovo gruppo e realizza, I Got Dem Ol’ Kozmic Blues Again, Mama, accolto freddamente in America ma con entusiasmo in Europa. Con la nuova Full Tilt Boogie Band, la Joplin trovò finalmente il punto d’equilibrio perfetto tra blues, rock e pop, contemporaneamente, non a caso, alla presa di coscienza del suo problema di dipendenza. Ma è una rinascita molto breve: il 4 ottobre del 1970 Janis Joplin muore per overdose.

Il mito e la leggenda di Janis Joplin sono stati indubbiamente ingigantiti dalla sua tragica fine, ma non va dimenticato che lei, Grace Slick e Mama Cass furono davvero le prime grandi cantanti della storia del rock. Se la Slick era la sacerdotessa del culto psichedelico di San Francisco e Mama Cass frequentava con la sua vocalità le strade del folk-rock, Janis fu la prima, e la sola, a fondere la sua vicenda musicale con quella del blues. Musica nera, cantata con la voce tagliente, sofferta e bruciante. Janis era la ribelle, la regina dell’eccesso e della trasgressione, la donna che invadeva il campo degli uomini e lo conquistava senza pudori, era la blueswoman che poteva permettersi, come farà in Pearl, il suo disco di maggior successo, di cantare delle preghiere laiche senza alcun accompagnamento musicale. La sua era una voce che lasciava segni nel cuore, era un grido e uno strappo, una contraddizione bianca e nera in un gioco assolutamente privo di regole, o dove le regole, per assurdo che fossero, le aveva scritte lei stessa. La tragica fine della sua vita sembrò in perfetta sintonia con la sua musica, un volo altissimo verso un territorio musicale rock e blues, con una costante aspirazione all’improvvisazione o comunque al superamento di qualsiasi gabbia stilistica. Restano di lei un pugno di dischi, molte canzoni memorabili e poco altro, anche perché, a differenza di Morrison e Hendrix, il volto di Janis non si è trasformato in icona, la sua faccia ha resistito per qualche anno sui poster ma non è mai arrivata sulle magliette dei ragazzi.