David Honeyboy Edwards: l’ultimo grande rappresentante del “Delta Blues”

Il 28 Giugno del 1915 a Shaw, nel Mississippi U.S.A., nasceva il grande bluesman David Honeyboy Edwards, che viene considerato l’ultimo grande rappresentante del cosiddetto “Delta Blues”. Edwards inizio la sua carriera di cantante e chitarrista a soli quattordici anni accompagnando dal vivo Wolf e Walter: il debutto vero e proprio come solista, pochi anni più tardi, avvenne nei club di Memphis. Trasferendosi a Greenwood, entrò in contatto con molti musicisti Blues, tra i quali il mitico Robert Johnson che – secondo la leggenda – era presente la notte della morte, avvenuta dopo l’ingestione di un bicchiere di whisky avvelenato, dell’icona delle dodici battute. Ebbe la sua prima occasione di registrazione discografica nel 1942, da parte di Alan Lomax, per conto della “Library of Congress”, come esempio del tipico “Blues rurale del Delta”. Pur avendo registrato dischi per case discografiche importanti come la “Chess” di Chicago e la “Sun” di Memphis, per decine di anni non riscosse successo, e diverse incisioni non videro la pubblicazione. Solo in tarda età, negli anni ’80 e ’90 venne “riscoperto”, apprezzato e portato al successo, pubblicando finalmente anche le sue primissime incisioni. Nel 2004 fu invitato a partecipare a Dallas ad un irripetibile concerto con gli ultimi grandi del “Delta Blues”, insieme a Pinetop Perkins, Henry Townsend e Robert Lockwood. Nel 2009 fu invitato alla “Biennale Musica” di Venezia, nella rassegna “La musica del novecento” e nel 2011, a 96 anni, riuscì a fare anche la sua ultima tournée negli Stati Uniti, per poi spengersi il 29 agosto per un attacco di cuore a Chicago.

Era chiamato “T-Model Ford”… ma non era un auto

Il 24 Giugno del 1923, a Forest, nel Mississippi, U.S.A., viene dato come il più probabile per la nascita del bluesman “T-Model Ford”, il cui vero nome era James Lewis Carter Ford. Non ricordava la sua data di nascita e viene considerato incerto non solo il giorno, ma addirittura anche l’anno (si ipotizza dal 1921 al 1925). Ford si guadagna da vivere guidando i camion di trasporto del legname. Impara a suonare la chitarra a 58 anni, ora ne ha 79, ma non la suona in maniera tradizionale; per lui il blues è soprattutto espressione oltre le regole e questo approccio anticonformista, in concorso con un carattere non proprio accomodante, gli inibisce la carriera discografica fino al 1997, quando incide il suo primo album all’età di 76 anni. Visse l’infanzia con un padre violento che lo ferì in modo permanente all’età di 11 anni. Analfabeta, fece lavori umili fin da ragazzino, arando campi, lavorando in una segheria e come camionista. Vivendo sempre in ambienti violenti finì in carcere per omicidio, ma riuscì ad avere un’incredibile riduzione della pena, restando in galera solo due anni. Ebbe 26 figli e quando la sua quinta moglie lo lasciò facendogli come “regalo d’addio” una chitarra, lui, pur non sapendo leggere la musica, imparò a suonarla ad orecchio ed in poco tempo decise di fare della musica il suo mestiere, tenendo dagli anni ’70 concerti in vari club, dove fu notato per il suo stile particolare, che fondeva le atmosfere “Delta Blues” con il Blues di Chicago e gli stili “jukeBlues” comuni. Ebbe occasione di aprire concerti di grandi come Buddy Guy e alla metà degli anni ’90 ebbe il suo primo contratto discografico con la “Fat Possum Records”, pubblicando 5 album, fino al 2008. Cantante e chitarrista anarchico, libero di suonare come voleva, fù il simbolo di quel blues mississippiano elettrificato che, nato in quei juke joint che qualcuno potrebbe definire di bassa lega ma in cui si mescolavano le radici con la rabbia dell’oggi, si basava essenzialmente sul rapporto a due che James aveva instaurato con il suo batterista Spam. Con la band GravelRoad fu invitato a vari Festival e realizzò vari tour. Fu anche protagonista di un documentario sul Blues. Nel 2008 gli fu applicato un pacemaker ma continuò a fare tour, fino ad essere vittima di un ictus nel 2010. Ma anche questo non lo fermò e pur avendo difficoltà di mobilità della mano destra, continuò a fare concerti in Festival e tour. Continuò anche ad incidere dischi e nel 2012 ebbe un secondo ictus, che ne limitò le esibizioni. Morì nel 2013 a Greenville, dopo una prolungata malattia, per insufficienza respiratoria.

Eric Dolphy: Un Maestro del Jazz d’Avanguardia

Il 20 Giugno del 1928, a Los Angeles, in California, U.S.A., nasceva il grande polistrumentista e compositore Jazz Eric Dolphy, figura fra le più misteriose e affascinanti di tutta la storia del jazz. Straordinario polistrumentista, maestro nell’uso del sassofono contralto, del flauto e del clarinetto basso, Dolphy è cresciuto a Los Angeles in un periodo in cui lo spazio di libera espressione per i jazzisti afroamericani stava rapidamente riducendosi; per questo la sua influenza sugli sviluppi del jazz ha potuto pienamente esprimersi solo dopo il suo trasferimento a New York, dal 1960, dove visse anche importanti collaborazioni con grandi del Jazz mondiale come Charlie Mingus., Max Roach, John Lewis, John Coltrane e Freddie Hubbard. Negli anni 60 fu consacrato come uno dei più grandi solisti del mondo, registrando alcuni dischi considerati capolavori assoluti del jazz di ogni tempo. Morì a Berlino ovest a 36 anni, nel 1964, durante un concerto, per un malore legato a gravi problemi di diabete, insufficienza renale e crisi cardiaca. Viene considerato uno tra i più grandi flautisti e sassofonisti Jazz del 900, oltre ad essere considerato anche un vero pioniere jazzistico del clarinetto basso.

Il giorno in cui ci lasciò Demetrio

Il 13 giugno 1979 muore in una clinica di New York Demetrio Stratos, una delle voci più significative della musica degli anni Settanta.  Nessun altro cantante, tra quelli a noi noti, ha approfondito e sperimentato quanto lui lo studio delle potenzialità di quel meraviglioso strumento che ciascuno porta con sé: la voce. Si faceva chiamare Demetrio Stratos ma il suo vero nome era Efstràtios Dimitrìu (Ευστράτιος Δημητρίου), un nome già di per sé traboccante di suoni, di intrinseca musicalità. Un nome indissolubilmente legato agli Area, gruppo protagonista della scena progressive rock italiana degli anni ’70, musicisti d’eccellenza che seppero andare oltre quella cornice, svincolandosi dai canoni prevalenti del genere e incamminandosi sui nuovi percorsi del nascente jazz-rock americano, antesignano della fusion. Nell’evoluzione artistica degli Area, Stratos ebbe una funzione importantissima. Possiamo valutare il suo spessore e la sua complessità culturale, prima ancora che la sua tecnica vocale, solo conoscendo le sue origini e suoi principali percorsi artistici e di vita. Stratos nacque il 22 aprile 1945 ad Alessandria d’Egitto, da una famiglia greca; già dalla nascita fu presente in lui un certo cosmopolitismo che più avanti si sarebbe accentuato ulteriormente. Nell’arco di tredici anni, riuscì ad inglobare uno straordinario caleidoscopio di suoni, accenti, intonazioni. Cominciò subito a frequentare il conservatorio studiando il pianoforte e la fisarmonica fino ai dodici anni, quando il colpo di stato di Nasser ai danni di re Faruq cambiò sensibilmente la situazione politica in Egitto. Si trasferì a Cipro dove continuò i suoi studi al Collegio Cattolico di Terra Santa e vi rimase per tutta l’adolescenza. A diciassette anni, ormai giovane universitario, si trasferì a Milano per iscriversi alla Facoltà di Architettura. Ma la sua vera passione era ancora e sempre la musica, e fin dal 1963, ad appena diciotto anni, formò vari gruppi musicali per poi approdare alla band dei Ribelli. insieme al batterista di origini turche Giulio Capiozzo, Stratos fondò gli Area (International POPular Group). Inizialmente entrarono a far parte della band il futuro bassista della Pfm Patrick Djivas, il tastierista Leandro Gaetano (tutti e due provenienti dal gruppo di Lucio Dalla), il sassofonista belga Victor Edouard Busnello e il chitarrista italo-ungherese Johnny Lambizzi. Con quella formazione registreranno il primo disco solista di Alberto Radius, nel quale peraltro è contenuto un brano/improvvisazione dal titolo Area. Parteciperanno nel 1972, come spalla, al tour dei Nucleus e, visto il successo, subito dopo apriranno anche una lunga serie di concerti dei Gentle Giants e di Rod Stewart. Fu in quel periodo che Paolo Tofani (proveniente dai Califfi) e Patrizio Fariselli, sostituirono rispettivamente alla chitarra e alle tastiere, Lambizzi e Leandro. Con quest’ultima formazione collaborarono strettamente Gianni Sassi e Sergio Albergoni, in arte Frankenstein, soprattutto nella stesura dei testi ma anche come “supervisori” di progetti e sperimentazioni. Gli Area parvero subito una band eclettica e dirompente che riuscì ad imporsi grazie ad una innovativa e sperimentale fusione di generi. Al rock progressivo mescolarono jazz, free jazz, funky, pop, elettronica e importanti influenze etniche (dalla musica balcanica a quella araba e magrebina). A ciò si aggiunse un esplicito impegno politico e sociale, una militanza che inserì perfettamente la band all’interno della controcultura giovanile degli anni ’70. 

Musica d’Africa #1/7

“Nel ritmo della musica d’Africa sono scritti i segni primordiali dei nostri alfabeti sonori. Quei suoni toccano il corpo dell’uomo, lo attraversano e lo animano”.

Con molta probabilità la vera culla originaria dell’homo sapiens è l’Africa, a quanto pare discendiamo tutti da uomini e donne di pelle scura, quindi da un Adamo ed Eva africani. A parte questo localismo, di sicuro si può dire che tutte le musiche che hanno dominato il nostro tempo, dal samba al jazz, dal blues al rock, hanno tutte almeno qualcosa a che vedere con la Madre Africa. E’ il continente nero che ha imposto al mondo alcuni elementi che si ritrovano ancora adesso, o meglio, tutto ciò che è ritmo, tutte le musiche in cui il ritmo ha una parte predominante, devono qualcosa alla antica origine africana. Tutto ha inizio nei secoli scorsi, quando le nazioni colonialistiche europee cominciarono a deportare in massa schiavi dell’Africa, verso il nuovo continente americano. Dall’incontro con le varie destinazioni, dal Brasile alle isole caraibiche, dal centro al nord America, sono nati innumerevoli percorsi musicali. Questo a distanza di secoli e a differenti latitudini, è rimasto un elemento caratteristico che fa della sonorità africana un mondo espressivo di eccezionale vitalità. Questa sonorità africana ha influenzato, e a sua volta si è lasciata influenzare, creando nuovi orizzonti musicali. Con l’acquisizione di trombe e sassofoni, chitarre e bassi elettrici si sono rimescolate le carte e si è chiuso un cerchio, generando straordinarie invenzioni che poi, in qualche modo, sono ritornate in Europa e in Africa. Il jazz, per esempio, non è altro che il frutto, se pure remoto, di questo complesso intreccio. Lo stesso vale per le musiche caraibiche e latino-americane nonché per il rock, che alla fine, risulta debitore di questi antichi influssi, anche quando non ne ha la minima consapevolezza. (continua)

Il blues selvaggio di Howlin’ Wolf

Il 10 giugno 1910 nasce ad Aberdeen, nel Mississippi il bluesman Chester Arthur Burnett, meglio conosciuto come Howlin’ Wolf, uno degli artefici della rivoluzione nel blues nel dopoguerra con l’innesto sugli stili del blues di Chicago dell’aggressività e dell linguaggio musicale del blues rurale. Un artista imponente, straordinario, con un ringhio distintivo e roco, Howlin’ Wolf è stato tra i musicisti blues più influenti degli anni del dopoguerra. Originario del Mississippi, si trasferì a Chicago e registrò per la Chess Records di quella città, Wolf fu in prima linea nella trasformazione del blues acustico del sud rurale nel blues elettrico e urbano di Chicago, ed era uno dei preferiti di molti dei primi artisti influenzati dal blues. Musicisti rock, tra cui i Rolling Stones e Jimi Hendrix.
Dopo che i suoi genitori si sono separati, è stato mandato a vivere con uno zio che lo ha trattato duramente e all’età di 13 anni è scappato per vivere con suo padre, un mezzadro. Wolf è stato ispirato a suonare dai tanti bluesmen che hanno viaggiato attraverso il delta del Mississippi, in particolare da Charley Patton. Nel 1928, dopo aver ricevuto una chitarra come regalo di compleanno, Burnett convinse Patton a dargli lezioni. Wolf fu influenzato dal canto potente e roco di Patton, uno stile che si adattava naturalmente a Wolf, che era alto più di un metro e ottanta e pesava quasi 300 libbre. Ben presto Burnett si esibì nei juke-joint di notte mentre di giorno lavorava nella fattoria di suo padre. Chester ha fatto una forte impressione sul pubblico, suonando una delle prime chitarre elettriche che molti membri del pubblico avessero mai visto e accompagnandosi con la sua armonica percussiva e canti, ringhi e ululati emotivi – uno stile grezzo che gli è valso il soprannome di “Howlin'”. Lupo.” Nel 1941 Wolf fu arruolato e prestò servizio tre anni nell’esercito. Fu dimesso dopo aver subito un esaurimento nervoso e nel 1948 si stabilì a West Memphis, in Arkansas, e formò una band elettrica dallo stile deciso. Wolf attirò l’attenzione di Sam Phillips, proprietario di uno studio di registrazione di Memphis che avrebbe poi fondato la leggendaria Sun Records, e la Philips registrò Wolf e affittò alcuni lati alla Chess Records di Chicago. Rilasciati nel 1952, andarono abbastanza bene perché Chess offrisse a Wolf un contratto, e nel 1953 Wolf si trasferì a Chicago, dove avrebbe vissuto per il resto della sua vita.

La jungle music di Bo Diddley

Il 2 giugno 2008 muore ad Archer in Florida, Bo Diddley considerato, insieme a Fats Domino e Chuck Berry, uno dei padri del rock and roll.  Bo Diddley è riconosciuto come uno dei primi e più influenti chitarristi e musicisti rock. Era nato a Pike County, Mississippi, il 20 dicembre 1928. Il suo nome di nascita era Otha Ellas Bates. Nel 1934 sua madre lo mandò a vivere con sua cugina, Guisse McDaniel a Chicago. Successivamente Otha cambiò il suo nome in Ellas McDaniel Diddley. All’età di dieci anni si interessò molto alla musica. Ha iniziato a studiare violino e chitarra alla Foster High School. Bo era molto attivo da adolescente e prendeva anche lezioni di boxe. Ha suonato il violino per l’Ebenezer Baptist Church Orchestra. Diddley suonava canzoni agli angoli delle strade con il suo amico Jerome Green, e Diddley lavorava nell’edilizia per soldi extra. Nell’ottobre del 1954 Bo aveva un gruppo. Si era comprato una chitarra elettrica e la carriera di Bo era iniziata. Si unì a Jerome Green per registrare due di quelli che divennero i successi di Diddley. I due successi furono pubblicati su Checker e salirono alle stelle fino al numero due delle classifiche nazionali R e B. Bo Diddley è apparso anche nei programmi televisivi di Ed Sullivan. I primi dischi di Bo dimostrarono che era molto più avanti dei suoi tempi nel suonare la chitarra. Dopo aver incontrato Billy “Boy” Arnold ed essere stato rilasciato dalla Chess Records, Bo ha cambiato il suo intero metodo di gioco. Bo Diddley ebbe una serie di successi durante i primi anni ’60. Dopo aver perso il favore negli Stati Uniti, divenne popolare in Inghilterra. Anni dopo, la sua influenza sulla scena rock britannica continuò quando fu invitato ad esibirsi con i Clash. Bo Diddley ha avuto molti riconoscimenti come musicista. Nel 1987 è stato inserito nella Rock and Roll Hall of Fame. Il successo di Diddley segnò l’inizio della mania del rock ‘n’ roll. Non solo i neri, ma anche i bianchi trovavano piacere nella sua musica. Diddley era sia un potente cantante che un innovatore che visse nel sud della California per molti anni. .Sono un tipo normale”, ha detto. “Ma devo essere diverso in quello che faccio… Perché è questo che mi mantiene nel mondo della musica.” Oggi, secondo Cort Chilldon di Gainesville, Florida, Bo Diddley vive ad Archer, in Florida. Dice: “Hai ragione sul fatto che sia un ragazzo normale. È molto semplice e odia un trattamento speciale. Penso che sia questo il motivo per cui vive dove vive.”

Musica d’Africa #0/7

Prefazione

Dopo i venti capitoli (ora pubblicati in una unica pagina) sulla Popular Music, pubblicherò sette capitoli sulla Musica Africana, altro genere musicale a cui sono profondamente legato, vista la passione che da anni mi coinvolge e di conseguenza mi spinge a conoscere ed ampliare. 

Sarà un’escursione breve ma abbastanza completa in quanto darà una visione il più possibile esaustiva su storie, musicisti, dischi e quant’altro hanno avuto importanza per il sottoscritto e per una platea più vasta. 

Per prendere informazioni, mi sono avvalso di materiale digitale e cartaceo. Per quest’ultimo, allego la bibliografia:

– Enciclopedia Rock (Arcana Editrice)
– Blues, Jazz, Rock, Pop – E. Assante – G. Castaldo (Einaudi)
– La terra promessa – G. Castaldo (Feltrinelli)
– Il Disco del Mese – E. Assante – G. Castaldo (la Repubblica)

Muddy Waters: il “padre” del Blues “elettrico”

Il 30 aprile 1983, a Westmont, Illinois, USA, si spegneva il grande cantautore e chitarrista Muddy Waters. Nato nel 1913 a Rolling Fork, Mississippi, USA, il suo vero nome era McKinley Morganfield. Il soprannome “Muddy Waters” gli fu dato dalla nonna durante l’infanzia, riflettendo la sua abitudine di giocare nel fango lungo le rive del Mississippi. All’età di nove anni iniziò a suonare l’armonica e a sedici anni la chitarra. Continuando a lavorare nei campi di cotone, iniziò a guadagnare suonando nelle feste locali. Prese lezioni di musica dal chitarrista e violinista Son Slims, con il quale fece anche la sua prima registrazione. Per un periodo gestì un Juke Joint, un locale improvvisato per il gioco d’azzardo e la musica dal vivo, prima di trasferirsi a Chicago, dove il blues stava emergendo come genere predominante. Lavorando come autista, si esibiva nei locali serali, venendo notato e ottenendo il suo primo contratto discografico con la Chess Records. Formò una band eccezionale con Little Walter all’armonica, Jimmie Rogers alla chitarra, Elga Edmonds alla batteria e Otis Spann al piano. Con questa formazione registrò vari dischi e ottenne successo negli anni ’50. Il 1958 segnò il suo successo in Europa con un tour in Inghilterra, dove il suo blues elettrico fece sensazione. Successivamente, registrò album in collaborazione con icone del blues come Howlin’ Wolf, Little Walter, Rory Gallagher, Bo Diddley e Steve Winwood. Il suo stile di blues elettrico, definito “urbano”, influenzò generazioni di musicisti e fu considerato un “anello mancante” tra il Delta Blues e il Rock’n’Roll. Ricevette numerosi Grammy Awards e Blues Music Awards, fu inserito nella Rock’n’Roll Hall of Fame e nella Blues Foundation Hall Of Fame. Nel 1994 gli fu dedicato un francobollo americano da 29 centesimi. Considerato il “padre del Chicago Blues” e uno degli artisti più influenti del XX secolo, la sua vita fu raccontata nel film “Cadillac Records” del 2008.

Popular Music (20. Cantautorato)

PrefazioneIndice

Mentre nei primi anni ’60 con il beat prendeva forma il primo rock italiano, alcuni musicisti di estrazione più colta, venivano influenzati da un modo di scrivere canzoni che in Francia esisteva da tempo. Personaggi come George Brassens, Jacques Brel, Charles Aznavour, Gilbert Bécaud, ecc. su una musica spesso essenziale, per non dire scarna, stendevano testi che parlavano d’amore in modo non banale o si occupavano di argomenti sociali o politici come la difficoltà di trovare lavoro, l’emarginazione o la ribellione a un potere sentito come oppressivo.
Da questi esempi, giovani musicisti come: Piero Ciampi (1934 – 1980), Gino Paoli (1934), Bruno Lauzi (1937 – 2006), Sergio Endrigo (1933 – 2005), Luigi Tenco (1938 – 1967), Fabrizio De Andrè (1940 – 1999), Giorgio Gaber (1939 – 2003), Francesco Guccini (1940) o Enzo Jannacci (1935 – 2013), ognuno con la propria personalità ed elaborando un proprio stile, presero spunto per creare una proposta artistica totalmente nuova per l’Italia.
La canzone non poteva più essere un semplice momento di svago: doveva contenere un «messaggio».
Una piccola grande rivoluzione.
Tutto ciò ebbe grande successo preso i giovani che finalmente potevano riconoscersi totalmente in quello che ascoltavano come in chi lo cantava.

Impossibile stilare una classifica di merito nel ricco panorama dei cantautori italiani che, dai primi anni ’60, avrebbe vissuto una stagione d’oro per almeno due decenni. A Fabrizio de André, tuttavia, viene universalmente riconosciuta una posizione di preminenza.
Il genovese fu uno dei primi a portare la canzone d’autore in Italia e, da quel momento, ha mantenuto salda la propria popolarità grazie a una produzione che, sostenuta da rigorosi principi artistici, non ha mai conosciuto un attimo di cedimento ed è sempre stata ad altissimo livello.

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Disco: Fabrizio de Andrè – La guerra di Piero (1964)

Forse non è una delle canzoni più belle di de André, ma è certo una delle più conosciute e, a suo modo, un brano storico. E’ infatti la prima canzone il cui testo è entrato in un’antologia scolastica: un fatto impensabile solo pochi anni prima. La guerra di Piero è molto semplice con la sua struttura di ballata: un soldato in terra incontra il nemico, potrebbe sparargli ma non lo fa, dopo tutto quella persona «che aveva il suo stesso identico umore ma la divisa di un altro colore» non gli ha fatto niente. Il nemico approfitta dell’esitazione, spara e lo uccide. Questo, che fu forse uno dei primi esempi di impegno sociale in musica, divenne una sorta di inno per quanti, già allora, protestavano contro le guerre che insanguinavano il mondo.

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Ai cantautori degli anni ’60 ne seguirono molti altri dagli anni ’70 in poi. E furono tantissimi: Edoardo Bennato (1949), Claudio Lolli (1950 – 2018), Francesco de Gregori (1951), Lucio Dalla (1943 – 2013), Paolo Conte (1937). In ambito più commerciale Antonello Venditti (1949), Angelo Branduardi (1950), Ivano Fossati (1951), Enrico Ruggeri (1957) e Luca Carboni (1962). E poi Pino Daniele (1955 – 2015), Roberto Vecchioni (1943), Franco Battiato (1945 – 2021)  e più ‘leggeri’ Renato Zero (1950), Gianna Nannini e Teresa de Sio.

Con un impegno sociale più marcato con riferimenti all’ideologia di sinistra: il regista Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini, Ivan della Mea, Gualtiero Bertelli, Dario Fo e Pino Masi.

Oltre l’impegno sociale, abbracciando uno stile personale più facile, ma non per questo leggero, ignorando il succedersi di mode e tendenze: Pierangelo Bertoli e Francesco Guccini.

Guccini non è mai stato ‘solo’ un cantautore.
Da orchestrale di balera come chitarrista del complesso ‘I Gatti’, aveva iniziato a scrivere canzoni per altri (i corregionali Nomadi e Equipe 84) e perfino musica per spot pubblicitari (Amarena Fabbri) alla pubblicazione del suo primo album ‘Folk & Beat n° 1’ dove esprimeva il suo interesse per la cultura americana. E poi via via un disco dopo l’altro per i decenni successivi.

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Disco: Francesco Guccini – Radici (1972)

Radici è da molti considerato uno degli episodi migliori di Guccini. I testi rivelano una notevole preparazione culturale, le musiche dimostrano una ricerca di soluzioni anche inusuali per questo ambito musicale, le rime esterne e interne al verso si incastrano in un prezioso lavoro d’intarsio che (miracolo!) non appare mai forzato. Eppure tutto questo sarebbe solo un esercizio di stile, un vano sfoggio accademico, se a dare spessore non ci fosse l’autentica passione popolare della Locomotiva, la malinconica poesia di Piccola città e Incontro, l’ingenuità della favola futuribile (e verrebbe da dire… suturata) di Il vecchio e il bambino… 

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Nella storia della canzone italiana, un caso assolutamente a se stante è rappresentato da Lucio Battisti (1943 – 1998). I suoi brani coi testi scritti da Mogol e poi Pasquale Panella, non esprimevano concetti particolarmente impegnati ma non si inquadrano nemmeno nel filone della canzone melodica tradizionale.

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Disco: Lucio Battisti – Pensieri e parole (1971)

In questo capolavoro assoluto, Battisti e Mogol propongono una forma di canzone totalmente inedita e mai ripetuta. Qui, due voci (entrambe di Battisti) cantano due testi distinti che continuamente si intrecciano. Il protagonista parla alla propria donna, ma in un caso esprime ciò che pensa, nell’altro ciò che dice apertamente. Le due linee, anche in contrasto, diventano complementari per darci un ritratto completo. Il testo (uno dei migliori di Mogol) è ricco di immagini dalle molteplici e mai chiarite interpretazioni, ma se il significato di alcuni passaggi può restare oscuro, chiarissimo è invece il senso generale di questa canzone che esprime in maniera assolutamente geniale la perenne lotta tra quello che si è veramente (e che si pensa) e ciò che appare (e che si dice).

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Se per tutti gli anni ’60 e ’70 la vicenda del rock italiano e quella dei cantautori avevano seguito strade assolutamente distinte, dagli anni ’80 in poi, i due percorsi iniziarono ad incrociarsi e fondersi.
I gruppi prog subirono un colpo durissimo, quasi tutti scomparvero (solo la PFM e il banco rimasero ma allontanandosi  dallo stile e dalla genialità dei primi tempi), come scomparvero i tanti gruppi pop (Pooh, Nomadi ecc.). Tuttavia in questo panorama desolante, mossero i primi passi tre personaggi che sarebbero diventati fenomeni musicali di immenso successo unendo scuola cantautorale e un inedito atteggiamento rock: Zucchero, Vasco Rossi e Luciano Ligabue.

Vasco Rossi (1952) era essenzialmente un dj (in discoteca e in una delle prime radio private italiane Punto Radio) a bocca, suo paese natale.
Presso l’emittente conduceva un programma sulla disco music e uno sui cantautori italiani dove dava spazio ai giovani esordienti della zona. Nel 1978, usci il primo album «Ma cosa vuoi che sia una canzone», non fu un successo come lo furono i successivi. Vinse un premio come rivelazione dell’anno e potè partecipare al festival di Sanremo dove arrivò ultimo con la sua «Vado al massimo».

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Disco: Vasco Rossi – Vita spericolata (1983)

Vita spericolata è il brano che riassume tutta al vita artistica e personale di Vasco. E anche se la sua vita, oggi, non è più ‘spericolata, esagerata, maleducata’, all’insegna della folle velocità o delle notti in cui ‘non è mai tardi’, questo brano continua ad identificarlo. Musicalmente è una canzone tutt’altro che banale, con un bellissimo crescendo che sottolinea un testo che è un inno alla ribellione e alla trasgressione. Una ribellione e una trasgressione che da molti è stata anche travisata, ma che nello spirito di Vasco voleva essere soprattutto un ‘no’ deciso alle convenzioni e alle mode che ci rendono tutti uguali, all’ipocrisia e all’incapacità di scelte coraggiose e personali, pur se controcorrente.

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Luciano Ligabue (1960) è nato a Correggio (RE). Dopo aver svolto i lavori più disparati (il bracciante, il metalmeccanico, il ragioniere, il conduttore radiofonico, il commerciante) nel 1987, fondò insieme ad alcuni amici il gruppo degli Orazero con il quale partecipò a diversi concorsi con brani che poi avrebbe inciso, come Anime in plexiglass, Bar Mario, Figlio di un cane ecc. Nel ’88 Pierangelo Bertoli incluse proprio Sogni di rock’n’roll nell’album ‘tra me e me’.

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Disco: Ligabue – Ligabue (1990)

Spesso nell’album d’esordio finisce tutto ciò che un artista ha covato per anni. Se il lavoro di selezione tra una materiale generalmente molto vasto ed eterogeneo funziona, ci si ritrova tra le mani un lavoro come questo. Che deve molto a Springsteen nella struttura delle canzoni e nelle tematiche affrontate, ma altrettanto alla nebbia e alle campagne padane. Ballate e rock tirati che piacquero immediatamente e che fecero del disco uno dei rari debutti di grande successo del rock italiano. Dopo quel disco, Lega avrebbe regalato al proprio pubblico ancora alcuni album di alto livello dirigendosi poi gradatamente verso una proposta sempre di grande successo, quanto più avara di colpi di genio.

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Adelmo ‘Zucchero’ Fornaciari (1955) rappresenta un caso tutto particolare.
Anche lui emiliano della provincia reggiana come Ligabue, ha condotto la prima parte della propria carriera soprattutto come autore di brani molto commerciali per altri cantanti (non particolarmente famosi). In questa veste, ad esempio, nella prima metà degli anni ’80 ha partecipato 5 volte al festival di Sanremo, oltre ad altre due in prima persona (senza essere minimamente notato)

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Disco: Zucchero – Blue’s (1987)

Probabilmente il vertice artistico del bluesman emiliano sta nei tre lavori pubblicati tra gli anni ’80 e ’90 (Blue’s, Oro incenso & birra e Miserere). In particolare, Blue’s arrivava dopo un paio di singoli e un album che avevano messo il musicista sulla strada giusta. Qui c’è ancora il gusto della canzone, non solo del riff vincente che poi avrebbe preso il sopravvento nella sua produzione; c’è l’amore per la musica nera americana e per la migliore canzone italiana. E nel momento in cui questi due elementi si fondono, prendono forma piccoli capolavori come Dune mosse, Hai scelto me, Pippo, Senza una donna o Hey Man.

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Lucio Dalla (1943 – 2012) è un autentico monumento della canzone italiana. Inserito qui, dopo tre ‘rockautori’ ma non può  certo essere inserito in questa categoria, come in nessun’altra: per lui la musica era una esperienza totalizzante del tutto ignara delle categorie.
Del resto dalla aveva iniziato come clarinettista jazz, era passato alla canzone commerciale (cin poco successo), aveva esplorato i territori della canzone d’autore avvalendosi dei testi di altri prima di iniziare a fare tutto da solo regalando alla storia della canzone italiana brani indimenticabili.

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Disco: Pino Daniele – Nero a metà (1980), Vai mo’ (1981)

Questi due album non costituiscono solo la vetta artistica della lunghissima carriera di Pino Daniele, ma due dei momenti più alti dell’intera storia della canzone d’autore italiana. In entrambi la fusione tra blues, rock, jazz, tradizione partenopea, musica bianca e musica nera è assolutamente perfetta, in un equilibrio entusiasmante su cui può muoversi energia e delicatezza, sberleffo e poesia in un linguaggio vivacissimo che fonde dialetto partenopeo e slang americano. Con una ricchezza di suoni che riesce ad abbracciare tutti i colori del Golfo.

(Fine)